lunedì 14 maggio 2012

L'arte della Sicilia arabo-normanna

Gli Arabi in Sicilia

Gli arabi, scatenate sanguinose battaglie in tutto il Mediterraneo arrivarono ad invadere la Spagna e la Francia. Dopo la sconfitta ad opera di Carlo Martello nella battaglia di Poitiers (732), rinunciarono ad una ulteriore penetrazione in Europa occidentale, cercando invece di consolidare il loro potere nella penisola iberica. Durante l'VIII secolo la Sicilia era stata oggetto di sporadiche spedizioni per procurarsi legname e incursioni piratesche volte alla cattura di giovani da avviare al mercato degli schiavi fiorente in Africa. Nel 740 vi fu un primo serio tentativo di conquista della città di Siracusa che fallì solo a causa di una rivolta berbera in Ifriqiya. Le truppe furono precipitosamente richiamate in Africa per sedarla.
Nel IX secolo l'emirato d'Africa fu affidato a Ibrahim Ibn Al Aglab, i cui discendenti, gli Aglabiti, ottenuto il sopravvento sulle tribù berbere, cominciarono a accarezzare la possibilità di conquistare la Sicilia ancora dominata dai bizantini.
Non si lasciarono sfuggire dunque l'occasione quando Eufemio, alto funzionario e ufficiale delle forze navali, si ribellò al nuovo stratego dell'isola, Costantino e chiese l'intervento di Ziyadet Aglab. Partiti da Susa e sbarcati a Mazara nell'827, gli Aglabiti puntarono sulla capitale Siracusa che, ben munita non riuscirono ad espugnare. Occupata allora Agrigento, si spinsero fino a Palermo che conquistarono dopo un anno di assedio nell'831. Siracusa continuò ad essere la capitale dei possedimenti bizantini in Sicilia fino al 878 anno in cui fu espugnata. Ma ancora per anni, una vasta zona compresa tra l'Etna e i Peloritani rimase sotto il controllo dei bizantini fin quando i Kalbiti, succeduti ai Fatimiti (al potere dal 910) e agli Aglabiti non completarono la conquista occupando Taormina nel 962 e Messina nel 964. Da quel momento la Sicilia Kalbita fu amministrativamente autonoma dal Califfo di Baghdad e suddivisa nei tre Valli: di Noto, Demone e di Mazara. Da allora sino al 1070 l'intera Sicilia visse un'epoca di incivilimento e di floridezza mai goduta prima e persino ignota a molte regioni italiane. Abili agricoltori, gli Arabi trasformarono terreni incolti in oasi di fertilità, crearono orti e giardini e introdussero nuove coltivazioni: agrumi, gelsi, meloni, canna da zucchero, cotone e canapa, palma da dattero e mandorli. Nuovi sistemi di irrigazione e di canalizzazione delle acque trasformarono il territorio che, rifiorito anche nella pastorizia e nel commercio, assunse un aspetto quasi fiabesco. Nella "Conca d'oro" gli emiri impiantarono fastose residenze come il castello della Favara a Maredolce, quello dello Scibene e quello del Parco ad Altofonte che avrebbero costituito un riferimento per i Re Normanni nella realizzazione del Palazzo della Zisa. Rifiorirono anche l'arte e la letteratura, grazie alla presenza di filosofi, scienziati, poeti e artisti. Palermo fu davvero amata dagli Arabi che la ornarono di mirabili monumenti, rendendola una delle più grandi attrattive per viaggiatori e mercanti di tutto il mondo, e più volte la cantarono nei loro inni. La Palermo araba nella sua estensione iniziale non era molto dissimile da quella punico-romana. Gran parte delle abitazioni, composte da uno o due piani, erano contenute all'interno del cosiddetto piede fenicio (delimitato dai torrenti Kemonia e Papireto), che gli arabi avevano denominato al qasr, il cassero o più semplicemente Medina (città). La parte più elevata di questo, la Paleopoli romana, chiamata al halqa, la cinta, (per greci e latini galca) era la cittadella sede del potere politico. Il qasr, cinto da possenti mura nelle quali si aprivano nove porte, era suddiviso in due parti da una via lastricata, (as-simat al balat), che lo percorreva secondo la direttrice Est-Ovest, mare-monti, risalente al primitivo impianto fenicio. All'interno del qasr era la grande moschea giami costruita sui resti della vecchia cattedrale bizantina e localizzabile nei pressi della attuale cattedrale normanna.
Nel 937, si rese necessario (per garantirsi l'eventuale fuga via mare in caso di rivolte) creare una nuova cittadella fortificata dove spostare il centro amministrativo della città. Il governatore militare Khalil Ibn Ishaq fece costruire il quartiere militare della al Halisah (l'eletta) l'attuale Kalsa, dove ebbero sede la residenza dell'emiro, l'arsenale e le prigioni. La cittadella, di forma trapezoidale era cinta da mura nelle quali si aprivano quattro porte tra cui la bab al Futuh. Contemporaneamente la città cominciò ad espandersi a macchia d'olio al di fuori del qasr. Si venne a formare, fuori le mura il borgo, rabat, distinto in tre parti: il quartiere degli Schiavoni (al Harat al as Saqalibah) o Seralcadio al di là del Papireto, il quartiere della Moschea (al Harat
al Masgid Ibn Saqlab) tra la Kalsa e lungo le rive del Kemonia e il quartiere Nuovo (al Harat al gadidah) ancora più a sud. Il quartiere della Moschea era ulteriormente suddiviso in due parti: il quartiere ebraico (al Harat al Yahud) nei pressi della attuale chiesa di S. Nicolò da Tolentino e il quartiere di Abu Himar tra la via Discesa dei Giudici e la via Calderai. Il porto di Palermo aveva assunto una importanza sempre maggiore a causa dei nuovi flussi commerciale: la vecchia direttrice Est- Ovest, Lilibeo-Siracusa era stata sostituita da quella Nord-Sud, Palermo-Mazara.
Nel 948 Palermo divenne capitale della Sicilia, col nome di Balarmu, ed in questo periodo di splendore raggiunse i 200.000 abitanti. Vi fu costituito un emirato, mentre molte chiese cristiane, tra cui la stessa Cattedrale, furono trasformate in templi musulmani, per un totale di ben 500 moschee (300 nella città e 200 nei sobborghi). Tuttavia tra Palermitani e Saraceni vi fu tolleranza, ma mai fusione; i dominatori arabi imposero onerosi tributi personali (Giziah) e fondiari (Kharag) a coloro che volessero professare religioni diverse dall'Islamismo; Cristiani ed Ebrei dovevano portare segni di riconoscimento sugli abiti e sulle case, non potevano costruire nuovi luoghi di culto o ostentare pubblicamente simboli religiosi; non potevano portare armi, non dovevano bere vino in pubblico, dovevano alzarsi davanti ai musulmani e cedere loro il passo. Tuttavia il popolo palermitano si mantenne autonomo non soltanto nella fede (all'arrivo dei Normanni a Palermo officiava ancora un arcivescovo greco) ma anche nelle tradizioni, nei costumi e nelle idee; le lingue parlate erano tre: greco, latino e arabo. Intorno al 1000 cominciò la lenta decadenza che avrebbe portato dopo 72 anni all'avvento dei Normanni. Già nel 1038 vi fu un primo tentativo dei bizantini di attuare una sorta di riconquista della Sicilia che fallì quando i Normanni, una parte dei mercenari assoldati (Vareghi, Normanni, Norvegesi) abbandonarono la lotta contro gli arabi in Sicilia per conquistare possedimenti nell'Italia meridionale a danno degli stessi bizantini. 
La moschea (masjìd)

Per comprendere la moschea è necessario avere una conoscenza del rituale religioso. Il fatto che la Mecca venisse considerata Città Santa (per la presenza della Kaaba), portò all'istituzione dei pellegrinaggi e determinò l'orientamento di tutte le moschee. La necessità di contenere grandi folle determinò la creazione di recinti murari e, torri e minareti costituirono punti di riferimento per i pellegrini. Il rituale religioso spiega anche il minbar o pulpito, le vasche per la purificazione, la moschea-madrasa cruciforme che accoglieva le quattro scuole giuridiche dell'Islam ortodosso.
La primitiva forma della moschea consisteva in uno spazio cinto da mura a cielo aperto (sahn) che successivamente cominciò ad avere uno dei quattro lati, quello del mihràb (nicchia), porticato. Tale spazio serviva ai muslìm (letteralmente aderenti all'islam) per la preghiera , ma anche per riunioni di tipo politico e, come nella basilica romana, per l'amministrazione della giustizia. Nelle moschee più importanti si trova il minbar un seggio soprelevato dal quale viene pronunciata la khutba (omelia). L'esterno delle moschee venne ben presto a caratterizzarsi, specie nelle città a maggioranza non islamica, per la presenza dei minareti dai quali si lancia l'adhàn, l'appello alla preghiera.
Tra le moschee più importanti è da ricordare quella di al Qatai fatta costruire nella appena rifondata città del Cairo, nel 876-78 dal governatore Ahmad ibn Tulun. Questa è separata dalla città da un doppio recinto in laterizio; è costituita da una sala della preghiera a cinque navate divise da pilastri. Sugli altri tre lati che delimitano l'atrio scoperto vi sono dei doppi porticati e al centro è la vasca delle abluzioni risalente al XIV sec. Il minareto spiraliforme, ispirato alla moschea di Samarra in Iraq, è posto in asse con il mihrab. Un'altra costruzione, la madrasa-moschea del Sultan Hassan costruita al Cairo tra il 1356 e il 1363, presenta lo schema tipico a quattro iwan; dietro l'iwan principale è il sepolcro del fondatore, coperto da un'alta cupola. Ai quattro angoli sono sistemate le abitazioni per i docenti e gli allievi delle quattro scuole giuridiche ortodosse: hanafita, shafeita, hanbalita, malekita. L'iwan principale, essendo provvisto di mihràb ha la funziona di sala di preghiera.
In origine gli arabi non costruivano moschee particolarmente belle; poiché il Profeta non aveva specificato che forma dovessero avere gli edifici di culto, essi cercarono soprattutto di riusare edifici preesistenti o di costruirne di nuovi sullo schema della casa di Maometto a Medina, con un cortile centrale e un portico tutto intorno. Sebbene queste strutture offrissero ombra, esse erano per lo più prive di pareti e quindi aperte agli elementi atmosferici. A contatto con l’architettura persiana, in cui la raffinata decorazione predomina incontrastata, gli arabi, rozzi uomini del deserto, ne rimasero affascinati. L’architettura persiana fu straordinaria sintesi di tutto ciò che avevano costruito precedentemente assiri, babilonesi ed egiziani, ma seppe divenire anche arte autoctona. Furono esportati in tutto il mondo islamico e perdurarono poi a lungo nel tempo i suoi elementi innovativi, ad esempio la cupola su base quadrata (gunbad), che secondo alcuni è nata in Iran, essendo già presente nel 3° secolo d.C. nei templi zoroastriani del fuoco a Firuzabad, presso Shiraz. Il soffitto ligneo della Cappella Palatina e le cupole di San Giovanni degli Eremiti sono alcuni dei monumenti di  Palermo in cui più evidente è l’influsso islamico.
Il giardino persiano è un paradaiza, termine di origine avestica da cui deriva il nostro paradiso, che designava uno spazio delimitato da uno o più muri, in particolare una riserva di caccia reale. Meravigliosi giardini esistevano già in Persia nelle regge dei re Achemenidi molti secoli prima dell’Islam. Dal 6° secolo A.C. in poi, il giardino persiano come recinto, come speculum mundi, ha stabilito un modello imitato senza soluzione di continuità in tutto l’Islam, dagli estremi lembi occidentali del Marocco e di El-Andalus, fino ai lontani regni degli imperatori Moghul nel Rajastan indiano e di Tamerlano a Samarcanda. Ogni giardino era anche orto botanico, uccelliera e zoo, un microcosmo che replicava in scala ridotta e ‘domestica’ i grandi parchi reali. I migliori esempi di ‘natura artificiale’ arrivati fino ai nostri giorni sono il giardino Finn a Kashan in Iran, il Generalife all’interno dell’Alhambra di Granada e lo Shalimar a Lahore in Pakistan, e certamente ne esistettero numerosi esempi anche in Sicilia.

I Normanni 
 
Provenienti dalla Normandia francese, i Normanni, "uomini del settentrione", erano un popolo di mercenari e avventurieri, dediti a guerre e razzie. Tra questi spiccavano due fratelli, Roberto il Guiscardo (il furbo) e il più giovane Ruggero, i quali ricevettero da papa Niccolò II l'autorizzazione di rivendicare, a suo nome, il possesso dell'Italia meridionale. Così Roberto e Ruggero d'Altavilla nel 1061 passarono lo stretto di Messina, chiamati tra l'altro dal signore di Siracusa Ibn ath-Thumna in lotta con il signore di Castrogiovanni Ibn al Hawwas e, dopo un primo periodo di lotte a fianco del signore di Siracusa, alla morte in battaglia di quest'ultimo decisero, cadute le ragioni dell'alleanza, di conquistare l'isola. Mentre la città di Palermo era assediata, nelle campagne a sud, nei pressi di una fortezza araba, fu edificata la chiesa di S. Giovanni dei Lebbrosi. I Saraceni, già in dissidio tra loro, furono duramente attaccati e Roberto il Guiscardo nel 1072, entrò vittorioso all'interno della Kalsa espugnata, passando per la bab al Futuh che da quel giorno avrebbe preso il nome di porta della Vittoria. Ancora oggi i resti della porta lignea sono visibili all'interno dell'ex Oratorio dei Bianchi. Il Guiscardo divenne amministratore di Palermo, governando con saggezza e tolleranza anche nei confronti degli antichi dominatori. La cattedrale e molte altre chiese furono restituite al culto cristiano e nuove ne furono edificate. Dopo poco più di dieci anni, nel 1085, Roberto morì, lasciando il governo al fratello Ruggero che, dopo avere sconfitto definitivamente i Saraceni, confermò in tutta l'isola il potere normanno. Tuttavia i musulmani mantennero un ruolo di prestigio alla corte normanna, rivestendo cariche amministrative e collaborando nel commercio e nell'arte. Alla sua morte, il conte Ruggero fu sepolto nella Cattedrale di Palermo e il governo passò alla moglie, la contessa Adelasia, che lo mantenne per dieci anni finché il figlio Ruggero II, raggiunta la maggiore età, fu proclamato, nel 1130, re di Sicilia. Durante i 24 anni del suo regno, Ruggero II ristrutturò il sistema burocratico e amministrativo della città distribuendo le terre ai propri fedeli e costituendo così una ricca aristocrazia di feudatari che al sovrano dovevano totale obbedienza. Egli affermò di ricevere il potere direttamente da Dio, indipendentemente dal consenso del papa, e decretò un codice di leggi ispirate al diritto romano con le quali esigeva obbedienza assoluta sia dai laici che dagli ecclesiastici. I vari feudatari formarono il Parlamento che ebbe soltanto valore consultivo e fu una emanazione della potestà del re. La corte di Ruggero II fu centro di arte e di scienza e a lui si devono la Chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio detta la Martorana, la Chiesa di S. Giovanni degli Eremiti e la splendida cappella Palatina, nel Palazzo dei re
Funerali di Guglielmo II dal Liber in honorem Augusti
normanni, dove si riunivano letterati, artisti e uomini di scienza. A Ruggero II successe al trono il figlio Guglielmo I, detto "il malo", che governò dal 1154 al 1166. I baroni, economicamente e socialmente forti, mal sopportando i limiti imposti ai loro privilegi feudali, si agitavano per la conquista del potere politico, spinti da intolleranza razziale contro i saraceni. Scoppiò così una rivolta, capeggiata da Matteo Bonello, durante la quale molti negozi e beni degli Arabi furono saccheggiati e danneggiati e lo stesso re fu imprigionato. Ma dopo pochi giorni il popolo lo liberò, il re riprese i poteri e i Saraceni si vendicarono crudelmente di Matteo Bonello e dei suoi seguaci. Quando a soli 46 anni d'età Guglielmo I morì, il potere passò nelle mani della regina Margherita, in attesa che il giovane figlio, Guglielmo II, raggiungesse la maggiore età per essere incoronato re. Guglielmo II fu detto "il buono", probabilmente perché si mostrò più tollerante del padre nei riguardi dei nobili, attenuando le imposte statali. Pur proseguendo la politica di cristianizzazione, Guglielmo II visse con lo sfarzo e l'eleganza di un sovrano orientale. E' durante questo periodo che fu costruita la splendida Cattedrale di Monreale, tipico esempio di arte raffinata in cui si fondono mirabilmente lo stile orientale e quello occidentale. Nello stesso periodo venne edificata la Cuba, completata la Zisa e il re dotò la Cattedrale di Palermo di nuove strutture. Con la morte di Guglielmo II, avvenuta all'età di 36 anni, si chiudeva la rigogliosa stagione del regno normanno.
Dopo il breve regno di Tancredi d'Altavilla, Palermo passò nelle mani di Enrico VI di Germania che intanto aveva sposato Costanza, ultima discendente del re Ruggero II. Enrico Hohenstaufen, impadronitosi dei tesori dei Normanni, abbandonò l'isola col ricco bottino. Morto improvvisamente, lasciò il regno al figlio Federico che, raggiunta la maggiore età, fu proclamato imperatore del Sacro Romano Impero. Con Federico II, Palermo rifiorì in ogni campo, raggiungendo prosperità e splendore: incrementò la coltivazione e l'allevamento e proclamò nuove leggi con le quali riaffermava il principio dell'autorità dell'imperatore anche sugli ecclesiastici; favorì gli studi di matematica, astronomia e soprattutto quelli letterari. Alla sua corte il dialetto siciliano divenne, per la prima volta, lingua ufficiale al posto del greco, dell'arabo e del latino e nacque la scuola poetica siciliana.

Gli anni della conquista (1061-1091)

I Normanni portarono in Sicilia gli architetti-costruttori e le forme dell’architettura borgognona diffuse dai benedettini di Cluny in Normandia e successivamente in Calabria. Cluniacensi furono i primi vescovi insediati dai Normanni a Troina, Catania, Mazara, Agrigento. Le Cattedrali di Catania e di Mazara presentano ambedue il transetto raddoppiato proprio dell’Abbazia di Cluny. A Catania l’abside è caratterizzata all’esterno da archeggiature cieche ogivali; a Mazara, due torri, come nella chiesa di S.Etienne a Caen, caratterizzavano la facciata.
L’architettura araba di puri volumi e di tese superfici, senza ombre, luminosissime, esercita la sua suggestione su queste prime costruzioni normanne.
Nascono così alcune chiese dalla nitida stereometria, animate dai rincassi che orlano le archeggiature cieche.
A Palermo S. Giovanni dei Lebbrosi (1072-1085) è a pianta basilicale: tre navate divise da pilastri su cui insistono archi leggermente ogivali. Sul transetto s’alza una cupola su nicchie fiancheggiate da due volte a crociera. Nella zona del santuario sono presenti delle colonnine annicchiate una delle quali presenta un'iscrizione in caratteri cufici. Sembra che la chiesa sia stata costruita sui resti di un rabat arabo, del quale rimangono tracce della pavimentazione, forse il castel Jehan, una fortezza che proteggeva la città dal lato sud-orientale. Guglielmo I vi trasferì nel 1155 un lebbrosario dal quale la chiesa prende il nome. Nel XIII secolo la chiesa e l'ospedale furono concessi da Federico II all'Ordine Teutonico della Magione. Il campanile cupolato sulla facciata è una ricostruzione moderna dovuta al restauro integrativo effettuato dal Valenti tra il 1925 ed il 1930.

L’architettura del regno di Ruggero II (1130-1154).

Le suggestioni dell’oriente bizantino e musulmano prendono vigore a S. Giovanni degli Eremiti (pianta a croce commissa) e a Santa Maria dell’Ammiraglio (a croce greca prima delle trasformazioni cinquecentesche e seicentesche). Si ritrovano nuovamente (fuse con il tipico impianto della basilica a tre navate “occidentale”) nella Cappella Palatina. Influssi nordici attestano nel Duomo di Cefalù (1131-32) la persistente presenza dell’architettura cluniacense mentre la cattedrale di Messina appare orientata verso le chiese cassinesi e pugliesi. A Cefalù gli archetti che corrono all’esterno, sotto la cimasa; le torri della facciata, il transetto sporgente e l’interno variato dal claristorio, attestano la presenza di motivi latino-monastici, accanto ai mosaici bizantini e alle influenze orientali delle semicolonnine binate che s’alzano all’esterno delle absidi sulle lesene per reggere gli archetti. I mosaici dell’abside del Duomo di Cefalù risalgono al 1148. Si tratta di una officina greca venuta da Bisanzio, la cui intensità espressiva ricorda gli affreschi russi di Vladimir (XII sec.). Nell’abside cefaludese, sotto il Pantocrator, sta la Vergine tra quattro angeli e nelle due zone sottostanti si dispongono gli apostoli. Rispetto all’arte costantinopolitana le figure appaiono più piatte ma il movimento lineare si accentua lasciando al colore tutta la sua purezza. Nelle pareti del presbiterio di Cefalù stanno disposti in tre zone patriarchi biblici e re, profeti, patriarchi della Chiesa e Santi. Gli autori sono di diversa provenienza. La spezzettatura della linea richiama gli affreschi di Nerez in Macedonia (1164).
Tornando alla chiesa di S. Giovanni degli eremiti, nel VI secolo fu edificato un austero monastero Gregoriano dedicato a S. Ermete. Caduto in rovina, solo nel 1136, grazie a re Ruggero, fu riedificato, e il suo abate divenne una delle personalità più importanti alla corte del re Normanno.
La chiesa, costruita prima del 1148, presenta un paramento murario semplice, caratteristico del periodo Normanno; ciò che invece rende l'edificio particolarmente rilevante è il mirabile chiostro attiguo alla chiesa, risalente all'età Normanna, che fu costruito con l'intenzione di riproporre, sia pure in scala ridotta, la struttura architettonica e gli elementi scultorei del chiostro del Duomo di Monreale, uno dei più significativi esempi dell'architettura Normanna in Sicilia. La chiesa fu radicalmente restaurata nel 1882 dal Patricolo.
La Martorana o S. Maria dell'Ammiraglio, chiesa normanna fra le più interessanti, fu fondata nel 1143 da Giorgio di Antiochia, valoroso ammiraglio di Re Ruggero che la dedicò alla Vergine. Poco dopo la sua edificazione, fu visitata da un viaggiatore arabo, Ibn Gubayr. I secoli non hanno ancora scolorito la fresca e ammirata immagine che il visitatore orientale portò con sé lasciando l'isola per altri lidi. "Le pareti interne sono dorate con tavole di marmo a colori, che uguali non ne furono mai viste; tutte intarsiate con pezzi da mosaico d'oro; inghirlandate di fogliame con mosaici verdi; in alto poi s'apre un ordine di finestre di vetro color d'oro che accecano la vista col bagliore dei raggi e destano negli animi una sensazione di tranquillo appagamento. Si dice che il fondatore di questa chiesa, del quale essa ha preso il nome, vi spese dei quintali d'oro. Questa chiesa ha un campanile, sostenuto da colonne di marmo di vari colori e sormontato da una cupola che poggia sopra altre colonne: lo chiamavano il campanile dalle colonne". Il nome di Martorana venne alla chiesa da un contiguo monastero che era stato edificato da Eloisa Martorana (1193). I mosaici dell'interno (1146-1151) presentano il Pantocrator nella cupola con quattro arcangeli; otto profeti nel tamburo; gli evangelisti nelle nicchie. Nelle volte si dispongono gli apostoli nonché la Dormitio Virginis, la Natività e due arcangeli. Negli archi trasversali si hanno Annunciazione e Presentazione al tempio. La linea si astrae favorendo un silente prezioso, remoto, isolamento delle immagini. Fra i mosaici che si trovano nell'interno, interessante quello che raffigura Giorgio Antiocheno ai piedi di Maria di cui invoca la protezione per averle donata la chiesa, come si rileva dal cartello che è presso di lei. Solo la testa e le mani dell'Ammiraglio sono antiche. La Martorana subì una profonda trasformazione a partire dal 1558 quando furono prolungate le navate e costruita la facciata barocca eliminando l'esonartece preesistente.   Nelle volte del prolungamento occidentale sono affreschi del fiammingo Guglielmo Borremans, venuto a Palermo nel Settecento, capo di una famiglia di artisti che lasciarono impronte notevoli della loro arte nella città.
La Cappella Palatina fu, fin dall'origine posta al centro dell'intero complesso del palazzo dei Normanni, costituendone il fulcro. La costruzione fu iniziata subito dopo il 1130, anno della incoronazione di re Ruggero. Una iscrizione musiva nella cupola attesta che essa fu consacrata nel 1143.
La chiesa è di moderate proporzioni (m. 32 di lunghezza, m. 12,40 di altezza e m. 18 l'altezza della cupola) e fonde armoniosamente la pianta basilicale latina delle navate con quella centrica del santuario. Le pareti nella parte alta, le absidi e la cupola sono decorati da preziosi mosaici che si saldano cromaticamente ai soffitti lignei a muqarnas. Autori dei mosaici furono maestri bizantini, espressamente chiamati, con i quali collaborarono, ma solo marginalmente, artisti locali da loro istruiti. Nella Cappella Palatina i Mosaici si dispongono secondo tre assi: verticale, trasversale (Nord-Sud), longitudinale (Est-Ovest). Cristo è rappresentato tre volte nel Santuario: nella cupola, nel catino absidale e nell'abside del diaconicon con altissima e pura espressività. La quarta immagine del Redentore è nel trono occidentale ma appartiene ad epoca più tarda. Nella navata centrale sono illustrate scene bibliche; nelle navate laterali scene degli atti degli apostoli, in queste ultime monumentalità e intensità psicologica provocano un'evidente trasformazione dell’arte bizantina verso intensità espressive di impronta romanica e occidentale. Nel transetto sono scene evangeliche mentre nella cupola riguardano la Chiesa Celeste. Nel tetto della Palatina, unico esempio di pittura araba, sentendosi questi svincolati dai precetti della loro religione, abbiamo due cicli, uno di vita cortese, l’altro che presenta figurazioni allegoriche.
Riguardo ai mosaici della cosiddetta Stanza di re Ruggero nel Palazzo dei Normanni a Palermo, l’araldica disposizione degli animali e delle piante nelle lunette sull’alto zoccolo di marmo, mostra nell’età dei Guglielmi l’orientamento del gusto verso le simmetriche e preziose partizioni di superfici proprie dello spirito astratto dei musulmani. Nel soffitto invece la linearizzazione nervosa ci conduce ad un’epoca più tarda: fine del XIII sec. e forse oltre.

L’architettura sotto i Guglielmi (1154-1166 e 1172-1189).

Tra le realizzazioni normanne sotto i Guglielmi la chiesa di S. Cataldo a Palermo (1160) riprende nella cimasa di coronamento nelle arcate cieche sui prospetti e nelle tre cupole di uguale altezza dipinte in rosso motivi orientali. L'interno, dalla pianta mista, centralizzante e longitudinale insieme, è di una nudità ieratica. Il pavimento è quello originario.
Abbiamo un dato certo della sua antichità: era già costruita nel 1161 a quanto si rileva dalla iscrizione del sepolcro di Matilde, figlia del conte Silvestro di Marsico. Il prospetto di S. Cataldo, che volge verso la via Maqueda, ora è perfettamente in vista, dopo le demolizioni degli edifici che lo nascondevano (1881) e la sistemazione dell'arioso Largo dei Cavalieri del S. Sepolcro seguito dai restauri compiuti tra il 1882 e il 1885 dall'architetto Patricolo che hanno ravvivato le sue linee architettoniche originarie.
In conseguenza di tali demolizioni è comparsa una completa pagina di storia palermitana, rappresentata da avanzi murali di vari tempi, ch'erano chiusi nel terrapieno. Piloni e muri del seicento, muri normanni e arabi, ruderi modesti ma preziosi di strutture antiche.
Il grande parco che circondava Palermo, allora proiettata verso il mare lungo l’asse del cassaro, si arricchisce di ville fantastiche e sontuose. Ruggero II aveva ripristinato il giardino arabo di delizie della Favara, a sud della Città oltre che il palazzo reale del Parco (Altofonte) e lo Scibene. Guglielmo I inizia a costruire la Zisa (1165).
Il palazzo, esposto a levante verso la città e il mare, sorgeva in una zona elevata in mezzo al parco del Genoard (in arabo paradiso della terra), in prossimità di un antico acquedotto romano e di un impianto termale.
L'edificio, al quale era collegata anche una cappella, la chiesetta della SS. Trinità, fu progettato in un unico contesto con la sistemazione del giardino circostante che comprendeva anche una vasca, la cosiddetta peschiera in asse all'ingresso.
Ha pianta rettangolare (36,36x19,60 ml) con due torrette sporgenti al centro dei lati corti. L'impianto planimetrico ricorda quello del Palazzo degli Ziridi di Ashir (Algeria) costruito nel 947 ma anche la sala cruciforme (a quattro diwan) del Dar al Bahr o palazzo del lago e la struttura esterna ad avancorpi del Dar al Manar di Qal'a (Tunisia). E' caratterizzato da una rigida simmetria secondo l'asse Est-Ovest e alla sua costruzione parteciparono probabilmente artisti e maestranze sfuggiti proprio alla distruzione della città di Qal'a (1152-63) ed emigrati in Sicilia.
Il piano terreno si apre verso il giardino antistante, allietato dalla peschiera, con un alto vestibolo che corre lungo tutta la facciata e al quale si accede da tre fornici. Quello centrale si innalza fino al primo piano marcandone la divisione in due zone simmetriche che comprendono ciascuna due finestre poste entro archeggiature cieche. Una cornice marcapiano continua separa il primo piano dal secondo che presenta una serie di aperture poste anch'esse entro archi ciechi e che si conclude in alto con una cimasa interrotta ritmicamente a formare dei merli.
Il vestibolo si apre su un salone cruciforme a doppia altezza con una grande fontana addossata alla parete di fondo, destinato originariamente a feste, ricevimenti e banchetti, caratterizzato da tre nicchioni a pianta rettangolare (con schema simile a quello della Cuba, dello Scibene e della Casa Martorana) terminati in alto da mouquarnas. Questa sala aperta verso l'esterno aveva, nell'intenzione del progettista, il compito di creare un rapporto diretto tra il palazzo e la peschiera antistante, permettendo a chi stava al suo interno, nei giorni d'estate, di vivere in un ambiente fresco e ventilato aperto in modo panoramico verso gli splendidi giardini del Genoard che facevano da quinta alla linea del mare. La fontana marmorea costituisce una eccezionale testimonianza dell'arte fatimita nel XII secolo. Al centro una lastra inclinata (sadirwan o sciadirvàn) scolpita con rilievi (chevrons) esaltava le increspature dell'acqua che, scivolando su di essa, produceva un suono suggestivo riversandosi poi e fluendo in una canaletta a pavimento che attraversata la sala, congiungendo due vaschette, ne raggiungeva un'altra posta nel vestibolo per poi riversarsi nella peschiera.
Sopra la fontana è un riquadro di stile islamico-fatimita (stelle ad otto punte) che racchiude girali di stile bizantino con figure di pavoni e biondi arcieri normanni. Tale commistione è indicativa del sincretismo culturale presente alla corte di Palermo nel XII secolo. La presenza, sopra la fontana, dell'aquila simbolo degli Hohenstaufen è un segno della probabile permanenza di Federico II nel palazzo. Ambienti simili alla sala descritta erano denominati dagli arabi Salsabil (di origine iranica, simboleggiava una delle sorgenti del paradiso coranico); in essa l'acqua sgorgando con un getto e stabulando nelle vasche contribuiva a raffrescare le correnti d'aria prodotte dal sistema di ventilazione dell'edificio dove era assicurata una climatizzazione ottimale di tutti gli ambienti per mezzo di canne di ventilazione poste al centro dei due lati corti dell'edificio.
A destra e a sinistra del salone della fontana si trovavano ambienti destinati al soggiorno diurno di dignitari, cortigiani e armigeri. Due scale, simmetricamente disposte, comprese entro vani quadrangolari e con brevi rampe sviluppate ad angolo retto attorno ad un'anima centrale adducevano ai piani superiori. La zona centrale del primo piano era costituita dal vuoto sulla sala della fontana mentre in ciascuna delle due ali si sviluppavano ambienti per l'abitazione collegati da un corridoio corrente sul fronte occidentale. Il secondo piano si sviluppava attorno ad un grande atrio scoperto sovrastante il salone della fontana, composto da quattro logge formate da altrettanti archi e colonne le cui basi sono ancora visibili, protette da parallelepipedi in vetro, ai quattro angoli.
Gli ambienti d'abitazione del secondo piano erano collegati, oltre che dal corridoio occidentale anche da un altro ambiente; la sala belvedere sovrastante il vestibolo e affacciata sul prospetto principale. Gli ambienti interni, dei quali alcuni ammezzati, si aprivano anche su due chiostrine simmetriche attigue all'atrio. Atrio e chiostrine erano riservati alle donne. La copertura era praticabile per esigenze di manutenzione, ma il grande atrio centrale del secondo piano, con le sue loggette agli angoli rappresentava già un confortevole luogo per il soggiorno estivo che non rendeva necessaria la fruizione della assolata terrazza di copertura. Lo scarico delle acque piovane avveniva, con opportune pendenze nella terrazza di copertura attraverso doccioni sporgenti sotto il coronamento e per gli spazi interni scoperti con impluvi e canalizzazioni. Le acque nere erano raccolte in due piccoli locali destinati a servizi igienici, con pianta a elle, provvisti di scarichi attraverso i quali erano convogliate verso canalizzazioni esterne. Le volte che coprono i tre piani dell'edificio, realizzate in conci di arenaria sono a crociera negli ambienti a pianta quadrata e a botte lunettata negli ambienti rettangolari. I rinfianchi delle volte erano riempiti, secondo un uso di origine romana con sabbia e materiali fittili di scarto come è ancora possibile vedere attraverso una apertura praticata in una volta tra primo e secondo piano. Gli architravi dei vani interni ed esterni erano costituiti da tronchi di castagno. I pavimenti erano in mattoni di argilla cotta posti a spina pesce mentre quelli della sala della fontana erano in marmo. Le soglie erano in legno di rovere. Le murature esterne sono molto spesse al piano terra e si riducono ai piani superiori, presentano una maggiore ampiezza al piano terra che va oltre le necessità statiche e riflette soltanto esigenze di difesa e di monumentalità oltre che di coibenza termica. Sia le murature esterne che quelle interne sono costituite da una doppia fodera di pietra da taglio con l'inclusione di pietrame informe posto a secco o legato con malta. Le murature esterne erano in origine intonacate con stucco prevalentemente bianco e rosso steso sulla pietra viva e decorato con disegni policromi.    
La Zisa (dall'arabo 'al-aziz = nobile, splendente) fu eretta sotto il regno di Guglielmo I (1154-1166) ma fu completata da Guglielmo II (1166-1189) nel 1175. Danneggiata nel corso delle lotte tra Angioini e Aragonesi fu concessa nel 1393 dal re Martino I e dalla regina Maria a frate Giovanni de Thaus e nel 1399 al siniscalco Guglielmo di Ventimiglia. Probabilmente in questo periodo fu tagliata la preziosa cimasa continua danneggiando l'iscrizione araba in caratteri cufici per realizzare una merlatura più consona al nuovo ruolo di palazzo fortificato assunto dall'edificio. Nel 1440 Alfonso il Magnanimo concesse il palazzo ad Antonio Beccadelli, detto il Panormita. Successivamente passò a Giovanni de Vio, segretario del viceré Fernando de Acuña, poi al nobile Pietro de Faraone e infine alla famiglia Alliata. Iniziò un periodo di decadenza tanto che in occasione della epidemia di peste del 1575 l'edificio fu adibito a deposito di oggetti posti in quarantena. Nel 1593 il Tribunale del Santo Uffizio tolse la Zisa agli Alliata per assegnarla prima a Nicolò Spatafora e successivamente a Giovanni Ventimiglia Marchese di Geraci Nel 1634 il palazzo versava in condizioni di degrado tali che l'asta per la vendita dello stesso andò deserta e solo nel 1635 fu acquistato da Giovanni di Sandoval, cugino del Viceré Marchese di Villena. Fu in quella occasione che il palazzo subì profonde trasformazioni che ne alterarono profondamente l'aspetto originario. In particolare fu realizzato un fastoso scalone che indebolì le strutture murarie, furono inseriti balconi e allargate finestre, fu inserito un arco ribassato tra il vestibolo e il salone della fontana riutilizzando le quattro colonne tolte dal quadriportico del secondo piano, ammezzando il vestibolo e tompagnando l'arcone centrale. In quella occasione fu pure coperto lo spazio centrale del secondo livello e realizzata una sovrastruttura ancora oggi presente. Fu pure creato un corpo di fabbrica che mise in connessione l'ala nord del palazzo con la cappella della SS. Trinità (che alterata da sovrastrutture sarebbe stata inglobata all'inizio dell'Ottocento nella chiesa di Gesù, Maria e S. Stefano). Nel Settecento la Zisa costituì nonostante i rimaneggiamenti apportati dai Sandoval, ancora oggetto di ammirazione da parte di studiosi e artisti europei. Nel 1806 estintasi la famiglia Sandoval, la proprietà passò a Francesco Paolo Notarbartolo e ai discendenti che ne mantennero il possesso fino al 1955 anno che vide l'esproprio per conto della Regione Siciliana. Nell'Ottocento (col rifiorire di studi medievalistici e di teorie del restauro architettonico) il palazzo era stato oggetto di studi, di rilievi e di progetti di ripristino da parte di studiosi stranieri e italiani (Viollet Le Duc, Gally Knight, De Prangey, Goldscmidt, Palazzotto, Valenti ed altri). I progetti di restauro ottocenteschi riproponevano le bifore, che certamente dovevano caratterizzare l'immagine originaria dell'edificio: una scelta datata, non proponibile dalle odierne teorie del restauro, data la mancanza di reperti o documenti ai quali fare riferimento per una ricostruzione non arbitraria.
Dopo l'esproprio cominciarono i lavori di restauro consistenti nel ripristino del vestibolo, dell'arcata nella facciata principale e in sporadici interventi all'interno, trascurando il consolidamento delle strutture che davano evidenti segni di fatiscenza. Già nel 1940 era crollata l'ala di collegamento tra il palazzo e la cappella della SS. Trinità così che non destò sorprese il crollo del 13 Ottobre 1971 che coinvolse una vasta zona dell'ala Nord. Di fronte alla gravità dei danni ci si trovò a dover scegliere tra la "reintegrazione" e rifunzionalizzazione e il "restauro archeologico" (che presupponeva cioè la non ricostruzione della parte crollata e il solo consolidamento, a livello di rudere della parte restante). Prevalse la scelta della ricostruzione della zona crollata, la reintegrazione delle scale nei vani originari, il consolidamento statico e il restauro architettonico degli esterni e degli interni con la conservazione di alcune significative aggiunte seicentesche. Per la ricostruzione delle zone crollate fu utilizzato calcestruzzo armato (per le volte) e mattoni pressati (per le murature), materiali che lasciati a vista, oltre che assicurare stabilità, avrebbero consentito una chiara lettura delle parti di ricostruzione. Tutte le fondazioni, le volte e le murature furono rinforzate con barre d'acciaio, resine epossidiche e iniezioni di cemento. I lavori di restauro, terminarono nel settembre del 1990 e dal giugno 1991 il palazzo fu restituito alla città e destinato a Museo della Civiltà Islamica di Sicilia.
Ancora immersi negli aranceti, residuo di quella che era la “conca d’oro”, dominata dal Monte Caputo o Monreale, sono visibili i resti della Cuba Soprana, inglobati nella villa Napoli, e della Cubula dove la volumetria araba si arricchisce del plastico bugnato che orla l’arco.
Il palazzo della Cuba voluto da Guglielmo II, un tempo circondato da acque azzurre e dal verde dei giardini fu costruito nel 1180, come dice la fascia epigrafica che fa da cimasa all'edificio. Doveva essere noto in tutta Italia tanto che Boccaccio vi ambientò la sesta novella della quinta giornata del Decamerone.
L'ingresso originario dell'edificio era quello orientato verso Monreale, collegato alla terraferma tramite una passerella. L'ingresso odierno serviva invece come accesso dopo l'attracco delle imbarcazioni provenienti dalla peschiera. Dall'ingresso originario ci si immetteva in una sala coperta utilizzata dal re per riposare. La parte centrale dell'edificio era caratterizzata da un grande atrio forse scoperto, o coperto da una cupola, circondato da un quadriportico formato da quattro arcate ogivali sorrette da quattro colonne ai quattro angoli e coperto da volte a botte. Al centro si trovava un impluvium stellare. L'ultima sala, aperta verso la città e il mare collegava la sala centrale e la peschiera; era un vano cubico, coperto da una volta a crociera, con tre nicchie sui tre lati. Il paramento murario, rimaneggiato nei restauri del 1921 e 1936 (F. Valenti) è animato da alte arcate cieche a doppia ghiera che contengono monofore, bifore o nicchiette sormontate da conchiglie. Attorno all'edificio fu impiantato un campo sanitario durante la peste del 1575 e presto cadde in rovina. Nel 1860 divenne proprietà dello stato italiano.   
Un gusto chiaroscurale, caratterizza altri capolavori del periodo dei Guglielmi: la chiesa di S. Spirito (la chiesa dei Vespri) e sempre a Palermo il campanile della Martorana (1180-1185). Qui, nella torre, il gioco delle colonne di marmo (completato pare da quattro colonnine che reggevano una rossa cupoletta) si inserisce nella pietra scura mossa da plastiche evidenze.
La cattedrale, mirabile esempio di sovrapposizione di stili, è sicuramente tra le architetture più rappresentative della città di Palermo.
Il piano, già cimitero, che si trova nello spazio antistante, presenta una transenna marmorea realizzata in alcune parti dallo scultore Vincenzo Gagini (1574-75).
Tra il 1655 e il 1673 furono realizzate delle statue che ancora oggi ornano la recinzione; il corpo di fabbrica dell'attuale cattedrale è il prodotto di una serie di interventi che, in epoche differenti, hanno contribuito ad arricchirlo e a renderlo unico ed irripetibile.
Prima basilica cristiana, fu in epoca musulmana (827-1072) trasformata in moschea, la Moschea Giami, questa, formata da più edifici doveva estendersi in un area comprendente anche l'attuale cappella di S. Maria l'Incoronata. La vecchia moschea fu demolita e la nuova Cattedrale di Palermo sorse (1184-85) ad opera di Gualtiero Offamilio, l'inglese Walter of the Mill fattosi proclamare arcivescovo di Palermo, in funzione antagonistica di quella di Monreale. I lavori di costruzione durarono meno di un anno, grazie al riuso di colonne ed elementi strutturali della Moschea preesistente. Una delle testimonianze superstiti é una pagina del Corano scolpita sul fusto della prima colonna del portico meridionale.
I quattro campanili furono soprelevati oltre il livello delle coperture nel XIV secolo, dando maggiore slancio alla struttura originaria che si presentava come una chiesa-fortezza collegata alla grande torre attraverso due arconi ogivali.
Nel 1510 Antonello Gagini inizia la costruzione della grande tribuna marmorea posta nell'abside principale. Il portale principale, quello laterale e la sacrestia risalgono al secolo XIV. Nella seconda metà del XV secolo furono realizzati il portico meridionale ed il nuovo Palazzo Arcivescovile.
Tra il 1781 e il 1801, l'intervento progettato dall'architetto Ferdinando Fuga e portato a termine dal Marvuglia, modificò fortemente l'impianto, realizzando l'attuale transetto e modificandone sia l'interno (rimozione del retablo gaginesco, modifica dei sostegni e degli archi) sia la cupola, stravolgendo irrimediabilmente i canoni linguistici della struttura originale. Nel 1805 fu completata "in stile" la torre campanaria secondo il progetto di E. Palazzotto. Ancora oggi, in ogni modo, nonostante le manomissioni, la cattedrale di Palermo presenta come stile predominante quello fatimita, orientaleggiante, che la rende unica tra le architetture dell'occidente cristiano.
L’ampia spazialità del Duomo di Monreale si apre alle influenze latino-cassinensi, ma le fonde con richiami arabeggianti (le colonne nicchiate del presbiterio) e bizantineggianti nelle archeggiature intrecciate delle absidi all’esterno, pur animate dal plasticismo di candide colonnine marmoree.
Il duomo di Monreale fondato nell’anno 1174 per volere di Guglielmo II, l’ultimo dei re normanni di Sicilia, dedicato alla Madonna dal quale prende il nome "Santa Maria Nuova" rappresenta oggi senza dubbio un vero e proprio capolavoro dell’architettura arabo-normanna in Sicilia.
L’interno dell’edificio presenta una pianta a croce latina suddivisa in tre navate concluse da transetto e da tre absidi.
E’ la "Via Sacra" che si svolge da occidente ad oriente e precisamente: dal portico serrato da due torri in pietra concia fino all’altare. Le tre navate sono divise da 18 colonne di maggior diametro nella parte centrale della navata per creare un piacevole effetto prospettico, sormontate da capitelli in stile corinzio finemente decorati, rimontati con una distribuzione spaziale a coppie, appartenenti probabilmente a templi romani del nord-Africa come ci dimostra la raffigurazione del volto di Cerere in un capitello. Tutte le colonne sono di granito, tranne una di marmo verde, come a Cefalù, simboleggiante la fede, colonna-sostegno della chiesa, che nel 1837 l’architetto Arcangelo Sanzia fece rimuovere dal suo posto, seconda a destra, scambiandola con la prima in modo che si vedesse meno entrando dalla "Porta del Paradiso". I mosaici del Duomo di Monreale (1180-1194 ca.) si dispongono su tre assi come alla Palatina, distribuendosi su vaste superfici, sfolgorando sull’alta zoccolatura marmorea solcata e compenetrata da decorazioni musive.
A Monreale la linea si frammenta e il senso cromatico smorza verdi e blu accentuando la preferenza verso il grigio e il marrone. Gli sfondi delle scene appaiono spesso costruiti prospetticamente. La resa degli edifici è puntuale e intesa a tradurre sul piano forme e volumi. I corpi vengono rivelati dalla linea. Si è pensato ad una immissione di artisti veneziani nel XIII sec. Kitzinger riporta i mosaici al 1180 cioè all’epoca degli imperatori Commeni ed a maestranze bizantine, secondo altri sarebbero opera di maestranze locali educate dai Greci.
Le 102 scene con iscrizioni greche e latine raffigurano scene del Vecchio e Nuovo Testamento estendendosi per ben 6436 mq e le figure sono tutte immerse in un fondo d’oro.
E' la seconda chiesa al mondo, dopo S. Sofia a Costantinopoli e prima di S. Marco a Venezia ad avere una così vasta raffigurazione musiva che si svolge in unità spaziale ben definita: nelle pareti della navata centrale è raffigurato il grandioso ciclo del Vecchio testamento; su quelle delle navatelle laterali i miracoli di Cristo, come ad esempio la guarigione dell’idrofobo e la moltiplicazione dei pani; nel transetto le scene cristologiche dall’annunzio a Zaccaria alla trasfigurazione; le storie di Pietro nell’ambiente che precede l’abside meridionale; quelle di Paolo nell’analogo spazio a settentrione; ed infine gli episodi relativi il Martirio dei Santi Casto e Cassio ed i Miracoli di San Castrenze risultano incastonati accanto e sotto le scene del vecchio testamento precisamente nel registro inferiore della controfacciata.
Centro di convergenza del Vecchio e del Nuovo Testamento e di tutte le concezioni architettoniche e decorative della Basilica, è la grandiosa e possente immagine del Cristo Pantocratore” (Dominatore Universale) che ammiriamo nel catino dell’abside centrale.
La figura umana e divina al contempo, tiene nella mano sinistra un libro aperto nel quale si possono leggere in latino e in greco le testuali parole: “Io sono la luce del mondo chi segue me non cammina nelle tenebre” e con la mano destra invita tutti quanti al silenzio.
Posta sotto Cristo é la solenne immagine della Madonna in trono con il bambino benedicente circondata da Arcangeli e Apostoli e nella fascia inferiore della parete absidale, le figure di 14 Sante e Santi. Due Papi posti nella parte più interna e dai lati della finestra, per meglio esprimere il riconoscimento dell’importanza del papato e della devozione ad esso voluta; oppure le figure di Tommaso di Canterbury e Pietro d'Alessandria entrambi primati delle rispettive chiese ed ambedue martiri e propagatori dei diritti della chiesa. All'ingresso sulla parete occidentale interna ammiriamo nella lunetta sul portale un’altra immagine della Madonna sotto la denominazione dell’Odigitria cioè di Maria che indica la via per il Bambino Gesù nelle sue braccia. E’ come già detto la Via Sacra che si svolge fra l’immagine di Maria all’ingresso e quella di Maria sul trono nell’abside maggiore del presbiterio destinato alle funzioni liturgiche; l’unica zona, pare, ad essere dotata di un pavimento a mosaico a lastre di marmo e di porfido fino al 1561, anno in cui il Farnese fa eseguire dal maestro Baldassarre il pavimento della navata centrale in marmo rosso siciliano, nero ligure e bianco toscano.
Solamente 30 anni dopo saranno completati i pavimenti delle navatelle per volere dell’Arcivescovo Ludovico II Torres, il quale donò alla Cattedrale un bronzo raffigurante S. Giovanni Battista, di fattura cinquecentesca, che fece collocare entro una nicchia della navata destra, e si fece carico di dare una degna sepoltura al corpo di Guglielmo II che fino allora giaceva sotto il pavimento del Duomo nei pressi dell’altare maggiore, facendogli costruire un sarcofago di marmo bianco, posto accanto a quello del padre. Nel 1811, un devastante incendio propagatosi, da un ripostiglio sotto l’organo, distrusse gran parte del tetto del presbiterio e delle cappelle laterali che fu ricostruito seguendo il modello precedente con qualche variante nei colori, forse troppo accesi.
Anche la copertura esterna del presbiterio fu ricostruita, ma solo sette anni dopo l’incendio, per opera dell’architetto Luigi Speranza che modificò l’andamento delle falde, la morfologia dei timpani e dei merli.
L’intero complesso è inoltre suggellato dalle due porte bronzee del XII sec. che chiudono gli unici vani d’accesso alla costruzione. La porta maggiore detta anche "Porta del Paradiso" ubicata sul lato occidentale della cattedrale chiusa all’esterno da un elegante portico, ricostruito dopo il crollo avvenuto la notte di Natale del 1770, con tre archi a tutto sesto, fu realizzata dallo scultore romanico Bonanno Pisano. Incorniciata da un ricco portale formato da stipiti reggenti un arco a sesto acuto a sua volta circondato da una cornice di forma pentagonale decorata da foglie d’acanto, essa rappresenta il più grande monumento bronzeo dell’età romanica, misurando, infatti, 780 cm. d’altezza e 370 cm di larghezza. Le 40 formelle di larghezza uniforme (41 cm di alt. e 34 cm di larg.) riproducono il tema biblico della storia dei rapporti tra l’uomo e Dio, come in tutta quanta la raffigurazione musiva.
La narrazione procede dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra: quelle raffiguranti il Vecchio Testamento sono collocate sopra lo zoccolo formato da doppi pannelli che ritroviamo alle sommità delle due ante.
Nei primi sono raffigurati grifoni e leoni interpretabili come custodi-guardiani del tempio; nei secondi, quelli posti in alto, sono raffigurate invece scene relative l’Assunzione di Maria e la Gloria di Cristo.
Quanto alla porta minore 423 cm per 215 cm, ubicata sotto il portico settentrionale, è opera dello scultore Barisano da Trani che s’ispirò a modelli bizantini.
Essa reca 28 formelle di bronzo incorniciate da un ricco motivo decorativo a circonferenze intrecciate e da un'ornamentazione formata da girali, raffiguranti varie immagini come quelle di Cristo in maestà entro la mandorla ripetute sulle due ante, della Madonna dell’Odigitria, dei dodici apostoli o quelle di due Santi cavalieri (Giorgio ed Eustachio) che alludono alla lotta tra il bene e il male.
Tutta la porta a sua volta è incorniciata da una fascia in mosaico decorato con motivi geometrizzanti.
Successive alla costruzione della Cattedrale sono le due cappelle del SS. Crocifisso, principale testimonianza del Barocco Siciliano a Monreale e di San Benedetto.
Nel Duomo oltre la sfarzosa cappella del Crocifisso vennero inseriti armonicamente con i marmi mischi (caratteristica del barocco siciliano) gli altari del Sacramento e della Madonna del Popolo assai venerata, che sarebbe stata scolpita dal tronco di carrubo del famoso sogno di Guglielmo e l’elegante altare della navata maggiore realizzato nella seconda metà del 700 dall’orafo romano Luigi Valadier in argento e rame dorato.
Tutte queste innovazioni, non turbarono le linee architettoniche e la decorazione musiva del Duomo che costituisce il più gran libro del Vecchio e Nuovo testamento mai realizzato "ciò che si può vedere di più completo di più ricco e più impressionante per quanto concerne la decorazione a mosaico su sfondo dorato" come fu definito dallo scrittore francese Guy de Maupassant dopo avere ammirato questo tempio.
La chiesa della Magione (1191) fonde i vari motivi fin qui individuati in una sintesi magistrale e compatta. La nitida volumetria dell’esterno con facciata a capanna, sigla e chiude lo slancio, all’interno, delle strutture con la tipica successione di colonne nicchiate sovrapposte. La spinta delle
membrature non si ripercuote però nelle volte.
Il doppio transetto, i rincassi, la solenne spazialità ci dicono delle componenti culturali di una alta e fermissima fantasia architettonica.
L’incontro fra Oriente e Occidente conduce in Sicilia ad una limpida e serena scansione di elementi architettonici.
La massa qui è volume, distesa superficie chiaramente sentita. Il fondo classico che imprime al romanico fiorentino la lineare eleganza delle sue partizioni, in Sicilia ha puntuale riscontro nel gusto arabo della volumetria e tutto questo concorre a superare in puri rapporti di volumi e di forme la tensione e il contrasto delle forze, propri del romanico europeo.

I mosaici 
 
Riguardo ai mosaici in epoca normanna, conviene ricordare alcuni concetti base per intendere l’arte bizantina e la rappresentazione musiva in particolare:
- l’arte bizantina tende non a commuovere ma a placare, inducendo nell’animo del contemplante una condizione psicologica che prefiguri l’eterna pace. In Sicilia a siffatto intento estetico e mistico si accompagnano il senso dello splendore e della magnificenza per l’esaltazione della gloria del regno normanno quale mezzo e veicolo dell’affermazione della fede.
- il principio compositivo tende non all’equilibrio ma alla subordinazione dei temi e delle figure. La chiesa celeste predomina anche figurativamente sulla Chiesa storica; Cristo è più grande degli apostoli.
- la prospettiva è di frequente inversa. Sicché le immagini più grandi, invece di stare in primo piano, come in un disegno prospettico dove le grandezze si dispongono in scala decrescente, arretrano verso lo sfondo. Ne deriva un senso per così dire trascinante dell’immagine che assorbe il contemplatore.
- la plasticità è annullata dalle lumeggiature: reticoli di oro o colore che annullano le forme, abolendo il chiaroscuro e quindi ogni possibilità di modellato.
- i corpi nudi o gli animali sono resi mediante stampigliature anatomiche: cerchi concentrici che annullano i volumi.

Bibliografia:

F. Maurici - Breve Storia degli Arabi in Sicilia - Flaccovio Editore - Palermo 1995
U. Scerrato - Grandi Monumenti ISLAM - Arnoldo Mondadori Editore - Milano 1972
G. Caronia - La Zisa di Palermo - Editori Laterza - Bari 1982
G. Bellafiore - La Cattedrale di Palermo - Flaccovio Editore - Palermo 1976
C. De Seta L. Di Mauro - Le città nella storia d'Italia  PALERMO- Editori Laterza - Bari 1981

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