Gli
Arabi in Sicilia
Gli
arabi, scatenate
sanguinose battaglie in tutto il Mediterraneo arrivarono ad invadere
la Spagna e la Francia. Dopo la sconfitta ad opera di Carlo Martello
nella battaglia di Poitiers (732), rinunciarono ad una
ulteriore penetrazione in Europa occidentale, cercando invece di
consolidare il loro potere nella penisola iberica. Durante l'VIII
secolo la Sicilia era stata oggetto di sporadiche spedizioni per
procurarsi legname e incursioni piratesche volte alla cattura di
giovani da avviare al mercato degli schiavi fiorente in Africa. Nel
740 vi fu un primo serio tentativo di conquista della città di
Siracusa che fallì solo a causa di una rivolta berbera in Ifriqiya.
Le truppe furono precipitosamente richiamate in Africa per sedarla.
Nel
IX secolo l'emirato d'Africa fu affidato a Ibrahim Ibn Al Aglab, i
cui discendenti, gli Aglabiti, ottenuto il sopravvento sulle tribù
berbere, cominciarono a accarezzare la possibilità di conquistare la
Sicilia ancora dominata dai bizantini.
Non
si lasciarono sfuggire dunque l'occasione quando Eufemio, alto
funzionario e ufficiale delle forze navali, si ribellò al nuovo
stratego dell'isola, Costantino e chiese l'intervento di Ziyadet
Aglab. Partiti da Susa e sbarcati a Mazara nell'827, gli Aglabiti
puntarono sulla capitale Siracusa che, ben munita non riuscirono ad
espugnare. Occupata allora Agrigento, si spinsero fino a Palermo che
conquistarono dopo un anno di assedio nell'831. Siracusa continuò ad
essere la capitale dei possedimenti bizantini in Sicilia fino al 878
anno in cui fu espugnata. Ma ancora per anni, una vasta zona compresa
tra l'Etna e i Peloritani rimase sotto il controllo dei bizantini fin
quando i Kalbiti, succeduti ai Fatimiti (al potere dal 910) e agli
Aglabiti non completarono la conquista occupando Taormina nel 962 e
Messina nel 964. Da quel momento la Sicilia Kalbita fu
amministrativamente autonoma dal Califfo di Baghdad e suddivisa nei
tre Valli: di Noto, Demone e di Mazara. Da allora sino al 1070
l'intera Sicilia visse un'epoca di incivilimento e di floridezza mai
goduta prima e persino ignota a molte regioni italiane. Abili
agricoltori, gli Arabi trasformarono terreni incolti in oasi di
fertilità, crearono orti e giardini e introdussero nuove
coltivazioni: agrumi, gelsi, meloni, canna da zucchero, cotone e
canapa, palma da dattero e mandorli. Nuovi sistemi di irrigazione e
di canalizzazione delle acque trasformarono il territorio che,
rifiorito anche nella pastorizia e nel commercio, assunse un aspetto
quasi fiabesco. Nella "Conca d'oro" gli emiri impiantarono
fastose residenze come il castello della Favara a Maredolce, quello
dello Scibene e quello del Parco ad Altofonte che avrebbero
costituito un riferimento per i Re Normanni nella realizzazione del
Palazzo della Zisa. Rifiorirono anche l'arte e la letteratura, grazie
alla presenza di filosofi, scienziati, poeti e artisti. Palermo fu
davvero amata dagli Arabi che la ornarono di mirabili monumenti,
rendendola una delle più grandi attrattive per viaggiatori e
mercanti di tutto il mondo, e più volte la cantarono nei loro inni.
La Palermo araba nella sua estensione iniziale non era molto
dissimile da quella punico-romana. Gran parte delle abitazioni,
composte da uno o due piani, erano contenute all'interno del
cosiddetto piede fenicio (delimitato dai torrenti Kemonia e
Papireto), che gli arabi avevano denominato al qasr, il cassero o più
semplicemente Medina (città). La parte più elevata di questo, la
Paleopoli romana, chiamata al halqa, la cinta, (per greci e latini
galca) era la cittadella sede del potere politico. Il qasr, cinto da
possenti mura nelle quali si aprivano nove porte, era suddiviso in
due parti da una via lastricata, (as-simat al balat), che lo
percorreva secondo la direttrice Est-Ovest, mare-monti, risalente al
primitivo impianto fenicio. All'interno del qasr era la grande
moschea giami costruita sui resti della vecchia cattedrale bizantina
e localizzabile nei pressi della attuale cattedrale normanna.
Nel
937, si rese necessario (per garantirsi l'eventuale fuga via mare in
caso di rivolte) creare una nuova cittadella fortificata dove
spostare il centro amministrativo della città. Il governatore
militare Khalil Ibn Ishaq fece costruire il quartiere militare della
al Halisah (l'eletta) l'attuale Kalsa, dove ebbero sede la residenza
dell'emiro, l'arsenale e le prigioni. La cittadella, di forma
trapezoidale era cinta da mura nelle quali si aprivano quattro porte
tra cui la bab al Futuh. Contemporaneamente la città cominciò ad
espandersi a macchia d'olio al di fuori del qasr. Si venne a formare,
fuori le mura il borgo, rabat, distinto in tre parti: il quartiere
degli Schiavoni (al Harat al as Saqalibah) o Seralcadio al di là del
Papireto, il quartiere della Moschea (al Harat
al Masgid Ibn Saqlab) tra la
Kalsa e lungo le rive del Kemonia e il quartiere Nuovo (al Harat al
gadidah) ancora più a sud. Il quartiere della Moschea era
ulteriormente suddiviso in due parti: il quartiere ebraico (al Harat
al Yahud) nei pressi della attuale chiesa di S. Nicolò da Tolentino
e il quartiere di Abu Himar tra la via Discesa dei Giudici e la via
Calderai. Il porto di Palermo aveva assunto una importanza sempre
maggiore a causa dei nuovi flussi commerciale: la vecchia direttrice
Est- Ovest, Lilibeo-Siracusa era stata sostituita da quella Nord-Sud,
Palermo-Mazara.
Nel
948 Palermo divenne capitale della Sicilia, col nome di Balarmu, ed
in questo periodo di splendore raggiunse i 200.000 abitanti. Vi fu
costituito un emirato, mentre molte chiese cristiane, tra cui la
stessa Cattedrale, furono trasformate in templi musulmani, per un
totale di ben 500 moschee (300 nella città e 200 nei sobborghi).
Tuttavia tra Palermitani e Saraceni vi fu tolleranza, ma mai fusione;
i dominatori arabi imposero onerosi tributi personali (Giziah) e
fondiari (Kharag) a coloro che volessero professare religioni diverse
dall'Islamismo; Cristiani ed Ebrei dovevano portare segni di
riconoscimento sugli abiti e sulle case, non potevano costruire nuovi
luoghi di culto o ostentare pubblicamente simboli religiosi; non
potevano portare armi, non dovevano bere vino in pubblico, dovevano
alzarsi davanti ai musulmani e cedere loro il passo. Tuttavia il
popolo palermitano si mantenne autonomo non soltanto nella fede
(all'arrivo dei Normanni a Palermo officiava ancora un arcivescovo
greco) ma anche nelle tradizioni, nei costumi e nelle idee; le lingue
parlate erano tre: greco, latino e arabo. Intorno al 1000 cominciò
la lenta decadenza che avrebbe portato dopo 72 anni all'avvento dei
Normanni. Già nel 1038 vi fu un primo tentativo dei bizantini di
attuare una sorta di riconquista della Sicilia che fallì quando i
Normanni, una parte dei mercenari assoldati (Vareghi, Normanni,
Norvegesi) abbandonarono la lotta contro gli arabi in Sicilia per
conquistare possedimenti nell'Italia meridionale a danno degli stessi
bizantini.
La
moschea (masjìd)
Per
comprendere la moschea è necessario avere una conoscenza del rituale
religioso. Il fatto che la Mecca venisse considerata Città Santa
(per la presenza della Kaaba), portò all'istituzione dei
pellegrinaggi e determinò l'orientamento di tutte le moschee. La
necessità di contenere grandi folle determinò la creazione di
recinti murari e, torri e minareti costituirono punti di riferimento
per i pellegrini. Il rituale religioso spiega anche il minbar
o pulpito, le vasche per la purificazione, la moschea-madrasa
cruciforme che accoglieva le quattro scuole giuridiche dell'Islam
ortodosso.
La
primitiva forma della moschea consisteva in uno spazio cinto da mura
a cielo aperto (sahn)
che successivamente cominciò ad avere uno dei quattro lati, quello
del mihràb
(nicchia),
porticato. Tale spazio serviva ai muslìm
(letteralmente aderenti all'islam) per la preghiera , ma anche per
riunioni di tipo politico e, come nella basilica romana, per
l'amministrazione della giustizia. Nelle moschee più importanti si
trova il minbar un
seggio soprelevato dal quale viene pronunciata la khutba
(omelia). L'esterno
delle moschee venne ben presto a caratterizzarsi, specie nelle città
a maggioranza non islamica, per la presenza dei minareti dai quali si
lancia l'adhàn,
l'appello alla preghiera.
Tra
le moschee più importanti è da ricordare quella di al Qatai fatta
costruire nella appena rifondata città del Cairo, nel 876-78 dal
governatore Ahmad ibn Tulun. Questa è separata dalla città da un
doppio recinto in laterizio; è costituita da una sala della
preghiera a cinque navate divise da pilastri. Sugli altri tre lati
che delimitano l'atrio scoperto vi sono dei doppi porticati e al
centro è la vasca delle abluzioni risalente al XIV sec. Il minareto
spiraliforme, ispirato alla moschea di Samarra in Iraq, è posto in
asse con il mihrab. Un'altra costruzione, la madrasa-moschea del
Sultan Hassan costruita al Cairo tra il 1356 e il 1363, presenta lo
schema tipico a quattro iwan; dietro l'iwan principale è il sepolcro
del fondatore, coperto da un'alta cupola. Ai quattro angoli sono
sistemate le abitazioni per i docenti e gli allievi delle quattro
scuole giuridiche ortodosse: hanafita, shafeita, hanbalita, malekita.
L'iwan principale, essendo provvisto di mihràb ha la funziona di
sala di preghiera.
In
origine gli arabi non costruivano moschee particolarmente belle;
poiché il Profeta non aveva specificato che forma dovessero avere
gli edifici di culto, essi cercarono soprattutto di riusare edifici
preesistenti o di costruirne di nuovi sullo schema della casa di
Maometto a Medina, con un cortile centrale e un portico tutto
intorno. Sebbene queste strutture offrissero ombra, esse erano per lo
più prive di pareti e quindi aperte agli elementi atmosferici. A
contatto con l’architettura persiana, in cui la raffinata
decorazione predomina incontrastata, gli arabi, rozzi uomini del
deserto, ne rimasero affascinati. L’architettura persiana fu
straordinaria sintesi di tutto ciò che avevano costruito
precedentemente assiri, babilonesi ed egiziani, ma seppe divenire
anche arte autoctona. Furono esportati in tutto il mondo islamico e
perdurarono poi a lungo nel tempo i suoi elementi innovativi, ad
esempio la cupola su base quadrata (gunbad),
che secondo alcuni è nata in Iran, essendo già presente nel 3°
secolo d.C. nei templi zoroastriani del fuoco a Firuzabad, presso
Shiraz. Il soffitto ligneo della Cappella Palatina e le cupole di San
Giovanni degli Eremiti sono alcuni dei monumenti di Palermo in
cui più evidente è l’influsso islamico.
Il
giardino persiano è un paradaiza,
termine di origine avestica da cui deriva il nostro paradiso,
che designava uno spazio delimitato da uno o più muri, in
particolare una riserva di caccia reale. Meravigliosi giardini
esistevano già in Persia nelle regge dei re Achemenidi molti secoli
prima dell’Islam. Dal 6° secolo A.C. in poi, il giardino persiano
come recinto, come speculum
mundi,
ha stabilito un modello imitato senza soluzione di continuità in
tutto l’Islam, dagli estremi lembi occidentali del Marocco e di
El-Andalus, fino ai lontani regni degli imperatori Moghul nel
Rajastan indiano e di Tamerlano a Samarcanda. Ogni giardino era anche
orto botanico, uccelliera e zoo, un microcosmo che replicava in scala
ridotta e ‘domestica’ i grandi parchi reali. I migliori esempi di
‘natura artificiale’ arrivati fino ai nostri giorni sono il
giardino Finn a Kashan in Iran, il Generalife all’interno
dell’Alhambra di Granada e lo Shalimar a Lahore in Pakistan, e
certamente ne esistettero numerosi esempi anche in Sicilia.
I Normanni
Provenienti
dalla Normandia francese, i Normanni, "uomini del settentrione",
erano un popolo di mercenari e avventurieri, dediti a guerre e
razzie. Tra questi spiccavano due fratelli, Roberto il Guiscardo (il
furbo) e il più giovane Ruggero, i quali ricevettero da papa Niccolò
II l'autorizzazione di rivendicare, a suo nome, il possesso
dell'Italia meridionale. Così Roberto e Ruggero d'Altavilla nel 1061
passarono lo stretto di Messina, chiamati tra l'altro dal signore di
Siracusa Ibn ath-Thumna in lotta con il signore di Castrogiovanni Ibn
al Hawwas e, dopo un primo periodo di lotte a fianco del signore di
Siracusa, alla morte in battaglia di quest'ultimo decisero, cadute le
ragioni dell'alleanza, di conquistare l'isola. Mentre la città di
Palermo era assediata, nelle campagne a sud, nei pressi di una
fortezza araba, fu edificata la chiesa di S. Giovanni dei Lebbrosi. I
Saraceni, già in dissidio tra loro, furono duramente attaccati e
Roberto il Guiscardo nel 1072, entrò vittorioso all'interno della
Kalsa espugnata, passando per la bab al Futuh che da quel giorno
avrebbe preso il nome di porta della Vittoria. Ancora oggi i resti
della porta lignea sono visibili all'interno dell'ex Oratorio dei
Bianchi. Il Guiscardo divenne amministratore di Palermo, governando
con saggezza e tolleranza anche nei confronti degli antichi
dominatori. La cattedrale e molte altre chiese furono restituite al
culto cristiano e nuove ne furono edificate. Dopo poco più di dieci
anni, nel 1085, Roberto morì, lasciando il governo al fratello
Ruggero che, dopo avere sconfitto definitivamente i Saraceni,
confermò in tutta l'isola il potere normanno. Tuttavia i musulmani
mantennero un ruolo di prestigio alla corte normanna, rivestendo
cariche amministrative e collaborando nel commercio e nell'arte. Alla
sua morte, il conte Ruggero fu sepolto nella Cattedrale di Palermo e
il governo passò alla moglie, la contessa Adelasia, che lo mantenne
per dieci anni finché il figlio Ruggero II, raggiunta la maggiore
età, fu proclamato, nel 1130, re di Sicilia. Durante i 24 anni del
suo regno, Ruggero II ristrutturò il sistema burocratico e
amministrativo della città distribuendo le terre ai propri fedeli e
costituendo così una ricca aristocrazia di feudatari che al sovrano
dovevano totale obbedienza. Egli affermò di ricevere il potere
direttamente da Dio, indipendentemente dal consenso del papa, e
decretò un codice di leggi ispirate al diritto romano con le quali
esigeva obbedienza assoluta sia dai laici che dagli ecclesiastici. I
vari feudatari formarono il Parlamento che ebbe soltanto valore
consultivo e fu una emanazione della potestà del re. La corte di
Ruggero II fu centro di arte e di scienza e a lui si devono la Chiesa
di S. Maria dell'Ammiraglio detta la Martorana, la Chiesa di S.
Giovanni degli Eremiti e la splendida cappella Palatina, nel Palazzo
dei re
normanni, dove si riunivano letterati, artisti e uomini di
scienza. A Ruggero II successe al trono il figlio Guglielmo I, detto
"il malo", che governò dal 1154 al 1166. I baroni,
economicamente e socialmente forti, mal sopportando i limiti imposti
ai loro privilegi feudali, si agitavano per la conquista del potere
politico, spinti da intolleranza razziale contro i saraceni. Scoppiò
così una rivolta, capeggiata da Matteo Bonello, durante la quale
molti negozi e beni degli Arabi furono saccheggiati e danneggiati e
lo stesso re fu imprigionato. Ma dopo pochi giorni il popolo lo
liberò, il re riprese i poteri e i Saraceni si vendicarono
crudelmente di Matteo Bonello e dei suoi seguaci. Quando a soli 46
anni d'età Guglielmo I morì, il potere passò nelle mani della
regina Margherita, in attesa che il giovane figlio, Guglielmo II,
raggiungesse la maggiore età per essere incoronato re. Guglielmo II
fu detto "il buono", probabilmente perché si mostrò più
tollerante del padre nei riguardi dei nobili, attenuando le imposte
statali. Pur proseguendo la politica di cristianizzazione, Guglielmo
II visse con lo sfarzo e l'eleganza di un sovrano orientale. E'
durante questo periodo che fu costruita la splendida Cattedrale di
Monreale, tipico esempio di arte raffinata in cui si fondono
mirabilmente lo stile orientale e quello occidentale. Nello stesso
periodo venne edificata la Cuba, completata la Zisa e il re dotò la
Cattedrale di Palermo di nuove strutture. Con la morte di Guglielmo
II, avvenuta all'età di 36 anni, si chiudeva la rigogliosa stagione
del regno normanno.
Funerali di Guglielmo II dal Liber in honorem Augusti |
Dopo
il breve regno di Tancredi d'Altavilla, Palermo passò nelle mani di
Enrico VI di Germania che intanto aveva sposato Costanza, ultima
discendente del re Ruggero II. Enrico Hohenstaufen, impadronitosi dei
tesori dei Normanni, abbandonò l'isola col ricco bottino. Morto
improvvisamente, lasciò il regno al figlio Federico che, raggiunta
la maggiore età, fu proclamato imperatore del Sacro Romano Impero.
Con Federico II, Palermo rifiorì in ogni campo, raggiungendo
prosperità e splendore: incrementò la coltivazione e l'allevamento
e proclamò nuove leggi con le quali riaffermava il principio
dell'autorità dell'imperatore anche sugli ecclesiastici; favorì gli
studi di matematica, astronomia e soprattutto quelli letterari. Alla
sua corte il dialetto siciliano divenne, per la prima volta, lingua
ufficiale al posto del greco, dell'arabo e del latino e nacque la
scuola poetica siciliana.
Gli anni della conquista (1061-1091)
I
Normanni portarono in Sicilia gli architetti-costruttori e le forme
dell’architettura borgognona diffuse dai benedettini di Cluny in Normandia e
successivamente in Calabria. Cluniacensi furono i primi vescovi insediati dai
Normanni a Troina, Catania, Mazara, Agrigento. Le Cattedrali di Catania e di
Mazara presentano ambedue il transetto raddoppiato proprio dell’Abbazia di
Cluny. A Catania l’abside è caratterizzata all’esterno da archeggiature cieche
ogivali; a Mazara, due torri, come nella chiesa di S.Etienne a Caen,
caratterizzavano la facciata.
L’architettura araba di puri volumi e di tese
superfici, senza ombre, luminosissime, esercita la sua suggestione su queste
prime costruzioni normanne.
Nascono così alcune
chiese dalla nitida stereometria, animate dai rincassi che orlano le
archeggiature cieche.
A Palermo S. Giovanni dei Lebbrosi
(1072-1085) è a pianta basilicale: tre navate divise da pilastri su cui
insistono archi leggermente ogivali. Sul transetto s’alza una cupola su nicchie
fiancheggiate da due volte a crociera. Nella zona del santuario sono presenti
delle colonnine annicchiate una delle quali presenta un'iscrizione in caratteri
cufici. Sembra che la chiesa sia stata costruita sui resti di un rabat
arabo, del quale rimangono tracce della pavimentazione, forse il castel Jehan,
una fortezza che proteggeva la città dal lato sud-orientale. Guglielmo I vi
trasferì nel 1155 un lebbrosario dal quale la chiesa prende il nome. Nel XIII
secolo la chiesa e l'ospedale furono concessi da Federico II all'Ordine
Teutonico della Magione. Il campanile cupolato sulla facciata è una
ricostruzione moderna dovuta al restauro integrativo effettuato dal Valenti tra
il 1925 ed il 1930.
L’architettura del regno di Ruggero II (1130-1154).
Le
suggestioni dell’oriente bizantino e musulmano prendono vigore a S.
Giovanni degli Eremiti (pianta a croce commissa) e a Santa Maria
dell’Ammiraglio (a croce greca prima delle trasformazioni
cinquecentesche e seicentesche). Si ritrovano nuovamente (fuse con il tipico
impianto della basilica a tre navate “occidentale”) nella Cappella Palatina.
Influssi nordici attestano nel Duomo di Cefalù (1131-32) la
persistente presenza dell’architettura cluniacense mentre la cattedrale di
Messina appare orientata verso le chiese cassinesi e pugliesi. A Cefalù gli
archetti che corrono all’esterno, sotto la cimasa; le torri della facciata, il
transetto sporgente e l’interno variato dal claristorio, attestano la presenza
di motivi latino-monastici, accanto ai mosaici bizantini e alle influenze
orientali delle semicolonnine binate che s’alzano all’esterno delle absidi sulle
lesene per reggere gli archetti. I mosaici dell’abside del Duomo di Cefalù
risalgono al 1148. Si tratta di una officina greca venuta da Bisanzio, la cui
intensità espressiva ricorda gli affreschi russi di Vladimir (XII sec.).
Nell’abside cefaludese, sotto il Pantocrator, sta la Vergine tra quattro angeli
e nelle due zone sottostanti si dispongono gli apostoli. Rispetto all’arte
costantinopolitana le figure appaiono più piatte ma il movimento lineare si
accentua lasciando al colore tutta la sua purezza. Nelle pareti del presbiterio
di Cefalù stanno disposti in tre zone patriarchi biblici e re, profeti,
patriarchi della Chiesa e Santi. Gli autori sono di diversa provenienza. La
spezzettatura della linea richiama gli affreschi di Nerez in Macedonia (1164).
Tornando alla chiesa di S. Giovanni degli eremiti, nel
VI secolo fu edificato un austero monastero Gregoriano dedicato a S. Ermete.
Caduto in rovina, solo nel 1136, grazie a re Ruggero, fu riedificato, e il suo
abate divenne una delle personalità più importanti alla corte del re Normanno.
La chiesa, costruita prima del 1148, presenta un
paramento murario semplice, caratteristico del periodo Normanno; ciò che invece
rende l'edificio particolarmente rilevante è il mirabile chiostro attiguo alla
chiesa, risalente all'età Normanna, che fu costruito con l'intenzione di
riproporre, sia pure in scala ridotta, la struttura architettonica e gli
elementi scultorei del chiostro del Duomo di Monreale, uno dei più
significativi esempi dell'architettura Normanna in Sicilia. La chiesa fu
radicalmente restaurata nel 1882 dal Patricolo.
La Martorana o S. Maria
dell'Ammiraglio, chiesa normanna fra le più interessanti, fu fondata nel 1143
da Giorgio di Antiochia, valoroso ammiraglio di Re Ruggero che la dedicò alla
Vergine. Poco dopo la sua edificazione, fu visitata da un viaggiatore arabo,
Ibn Gubayr. I secoli non hanno ancora scolorito la fresca e ammirata immagine
che il visitatore orientale portò con sé lasciando l'isola per altri lidi.
"Le pareti interne sono dorate con tavole di marmo a colori, che uguali
non ne furono mai viste; tutte intarsiate con pezzi da mosaico d'oro;
inghirlandate di fogliame con mosaici verdi; in alto poi s'apre un ordine di
finestre di vetro color d'oro che accecano la vista col bagliore dei raggi e
destano negli animi una sensazione di tranquillo appagamento. Si dice che il
fondatore di questa chiesa, del quale essa ha preso il nome, vi spese dei
quintali d'oro. Questa chiesa ha un campanile, sostenuto da colonne di marmo di
vari colori e sormontato da una cupola che poggia sopra altre colonne: lo
chiamavano il campanile dalle colonne". Il nome di Martorana venne
alla chiesa da un contiguo monastero che era stato edificato da Eloisa
Martorana (1193). I mosaici dell'interno (1146-1151) presentano il Pantocrator
nella cupola con quattro arcangeli; otto profeti nel tamburo; gli evangelisti
nelle nicchie. Nelle volte si dispongono gli apostoli nonché la Dormitio
Virginis, la Natività e due arcangeli. Negli archi trasversali si hanno
Annunciazione e Presentazione al tempio. La linea si astrae favorendo un
silente prezioso, remoto, isolamento delle immagini. Fra i mosaici che si
trovano nell'interno, interessante quello che raffigura Giorgio Antiocheno ai
piedi di Maria di cui invoca la protezione per averle donata la chiesa, come si
rileva dal cartello che è presso di lei. Solo la testa e le mani
dell'Ammiraglio sono antiche. La Martorana subì una profonda trasformazione a
partire dal 1558 quando furono prolungate le navate e costruita la facciata
barocca eliminando l'esonartece preesistente.
Nelle volte del prolungamento occidentale sono affreschi del fiammingo
Guglielmo Borremans, venuto a Palermo nel Settecento, capo di una famiglia di
artisti che lasciarono impronte notevoli della loro arte nella città.
La Cappella
Palatina fu, fin dall'origine posta al centro dell'intero complesso del
palazzo dei Normanni, costituendone il fulcro. La costruzione fu iniziata
subito dopo il 1130, anno della incoronazione di re Ruggero. Una iscrizione
musiva nella cupola attesta che essa fu consacrata nel 1143.
La
chiesa è di moderate proporzioni (m. 32 di lunghezza, m. 12,40 di altezza e m.
18 l'altezza della cupola) e fonde armoniosamente la pianta basilicale latina
delle navate con quella centrica del santuario. Le pareti nella parte alta, le
absidi e la cupola sono decorati da preziosi mosaici che si saldano
cromaticamente ai soffitti lignei a muqarnas. Autori dei mosaici furono maestri
bizantini, espressamente chiamati, con i quali collaborarono, ma solo
marginalmente, artisti locali da loro istruiti. Nella Cappella Palatina i
Mosaici si dispongono secondo tre assi: verticale, trasversale (Nord-Sud),
longitudinale (Est-Ovest). Cristo è rappresentato tre volte nel Santuario:
nella cupola, nel catino absidale e nell'abside del diaconicon con altissima e
pura espressività. La quarta immagine del Redentore è nel trono occidentale ma
appartiene ad epoca più tarda. Nella navata centrale sono illustrate scene
bibliche; nelle navate laterali scene degli atti degli apostoli, in queste
ultime monumentalità e intensità psicologica provocano un'evidente
trasformazione dell’arte bizantina verso intensità espressive di impronta
romanica e occidentale. Nel transetto sono scene evangeliche mentre nella
cupola riguardano la Chiesa Celeste. Nel tetto della Palatina, unico esempio di
pittura araba, sentendosi questi svincolati dai precetti della loro religione,
abbiamo due cicli, uno di vita cortese, l’altro che presenta figurazioni
allegoriche.
Riguardo ai mosaici della cosiddetta Stanza di
re Ruggero nel Palazzo dei Normanni a Palermo, l’araldica disposizione
degli animali e delle piante nelle lunette sull’alto zoccolo di marmo, mostra
nell’età dei Guglielmi l’orientamento del gusto verso le simmetriche e preziose
partizioni di superfici proprie dello spirito astratto dei musulmani. Nel
soffitto invece la linearizzazione nervosa ci conduce ad un’epoca più tarda:
fine del XIII sec. e forse oltre.
L’architettura sotto i Guglielmi (1154-1166 e
1172-1189).
Tra le realizzazioni normanne sotto i Guglielmi la chiesa
di S. Cataldo a Palermo (1160) riprende nella cimasa di coronamento
nelle arcate cieche sui prospetti e nelle tre cupole di uguale altezza dipinte
in rosso motivi orientali. L'interno, dalla pianta mista, centralizzante e
longitudinale insieme, è di una nudità ieratica. Il pavimento è quello
originario.
Abbiamo un dato certo
della sua antichità: era già costruita nel 1161 a quanto si rileva dalla
iscrizione del sepolcro di Matilde, figlia del conte Silvestro di Marsico. Il
prospetto di S. Cataldo, che volge verso la via Maqueda, ora è perfettamente in
vista, dopo le demolizioni degli edifici che lo nascondevano (1881) e la
sistemazione dell'arioso Largo dei Cavalieri del S. Sepolcro seguito dai
restauri compiuti tra il 1882 e il 1885 dall'architetto Patricolo che hanno
ravvivato le sue linee architettoniche originarie.
In conseguenza di tali demolizioni è comparsa una
completa pagina di storia palermitana, rappresentata da avanzi murali di vari
tempi, ch'erano chiusi nel terrapieno. Piloni e muri del seicento, muri
normanni e arabi, ruderi modesti ma preziosi di strutture antiche.
Il grande parco che circondava Palermo, allora
proiettata verso il mare lungo l’asse del cassaro, si arricchisce di ville
fantastiche e sontuose. Ruggero II aveva ripristinato il giardino arabo di
delizie della Favara, a sud della Città oltre che il palazzo reale del Parco
(Altofonte) e lo Scibene. Guglielmo I inizia a costruire la Zisa (1165).
Il palazzo, esposto a
levante verso la città e il mare, sorgeva in una zona elevata in mezzo al parco
del Genoard (in arabo paradiso della terra), in prossimità di un antico
acquedotto romano e di un impianto termale.
L'edificio, al quale era
collegata anche una cappella, la chiesetta della SS. Trinità, fu progettato in
un unico contesto con la sistemazione del giardino circostante che comprendeva
anche una vasca, la cosiddetta peschiera in asse all'ingresso.
Ha pianta rettangolare
(36,36x19,60 ml) con due torrette sporgenti al centro dei lati corti.
L'impianto planimetrico ricorda quello del Palazzo degli Ziridi di Ashir
(Algeria) costruito nel 947 ma anche la sala cruciforme (a quattro diwan) del
Dar al Bahr o palazzo del lago e la struttura esterna ad avancorpi del Dar al
Manar di Qal'a (Tunisia). E' caratterizzato da una rigida simmetria secondo
l'asse Est-Ovest e alla sua costruzione parteciparono probabilmente artisti e
maestranze sfuggiti proprio alla distruzione della città di Qal'a (1152-63) ed
emigrati in Sicilia.
Il piano terreno si apre
verso il giardino antistante, allietato dalla peschiera, con un alto vestibolo
che corre lungo tutta la facciata e al quale si accede da tre fornici. Quello
centrale si innalza fino al primo piano marcandone la divisione in due zone
simmetriche che comprendono ciascuna due finestre poste entro archeggiature
cieche. Una cornice marcapiano continua separa il primo piano dal secondo che
presenta una serie di aperture poste anch'esse entro archi ciechi e che si
conclude in alto con una cimasa interrotta ritmicamente a formare dei merli.
Il vestibolo si apre su
un salone cruciforme a doppia altezza con una grande fontana addossata alla
parete di fondo, destinato originariamente a feste, ricevimenti e banchetti,
caratterizzato da tre nicchioni a pianta rettangolare (con schema simile a
quello della Cuba, dello Scibene e della Casa Martorana) terminati in alto da
mouquarnas. Questa sala aperta verso l'esterno aveva, nell'intenzione del
progettista, il compito di creare un rapporto diretto tra il palazzo e la
peschiera antistante, permettendo a chi stava al suo interno, nei giorni
d'estate, di vivere in un ambiente fresco e ventilato aperto in modo panoramico
verso gli splendidi giardini del Genoard che facevano da quinta alla linea del
mare. La fontana marmorea costituisce una eccezionale testimonianza dell'arte
fatimita nel XII secolo. Al centro una lastra inclinata (sadirwan o sciadirvàn)
scolpita con rilievi (chevrons) esaltava le increspature dell'acqua che,
scivolando su di essa, produceva un suono suggestivo riversandosi poi e fluendo
in una canaletta a pavimento che attraversata la sala, congiungendo due
vaschette, ne raggiungeva un'altra posta nel vestibolo per poi riversarsi nella
peschiera.
Sopra la fontana è un
riquadro di stile islamico-fatimita (stelle ad otto punte) che racchiude girali
di stile bizantino con figure di pavoni e biondi arcieri normanni. Tale
commistione è indicativa del sincretismo culturale presente alla corte di
Palermo nel XII secolo. La presenza, sopra la fontana, dell'aquila simbolo
degli Hohenstaufen è un segno della probabile permanenza di Federico II nel
palazzo. Ambienti simili alla sala descritta erano denominati dagli arabi
Salsabil (di origine iranica, simboleggiava una delle sorgenti del paradiso
coranico); in essa l'acqua sgorgando con un getto e stabulando nelle vasche
contribuiva a raffrescare le correnti d'aria prodotte dal sistema di
ventilazione dell'edificio dove era assicurata una climatizzazione ottimale di
tutti gli ambienti per mezzo di canne di ventilazione poste al centro dei due
lati corti dell'edificio.
A destra e a sinistra
del salone della fontana si trovavano ambienti destinati al soggiorno diurno di
dignitari, cortigiani e armigeri. Due scale, simmetricamente disposte, comprese
entro vani quadrangolari e con brevi rampe sviluppate ad angolo retto attorno
ad un'anima centrale adducevano ai piani superiori. La zona centrale del primo
piano era costituita dal vuoto sulla sala della fontana mentre in ciascuna
delle due ali si sviluppavano ambienti per l'abitazione collegati da un corridoio
corrente sul fronte occidentale. Il secondo piano si sviluppava attorno ad un
grande atrio scoperto sovrastante il salone della fontana, composto da quattro
logge formate da altrettanti archi e colonne le cui basi sono ancora visibili,
protette da parallelepipedi in vetro, ai quattro angoli.
Gli ambienti
d'abitazione del secondo piano erano collegati, oltre che dal corridoio
occidentale anche da un altro ambiente; la sala belvedere sovrastante il
vestibolo e affacciata sul prospetto principale. Gli ambienti interni, dei
quali alcuni ammezzati, si aprivano anche su due chiostrine simmetriche attigue
all'atrio. Atrio e chiostrine erano riservati alle donne. La copertura era
praticabile per esigenze di manutenzione, ma il grande atrio centrale del
secondo piano, con le sue loggette agli angoli rappresentava già un
confortevole luogo per il soggiorno estivo che non rendeva necessaria la
fruizione della assolata terrazza di copertura. Lo scarico delle acque piovane
avveniva, con opportune pendenze nella terrazza di copertura attraverso
doccioni sporgenti sotto il coronamento e per gli spazi interni scoperti con
impluvi e canalizzazioni. Le acque nere erano raccolte in due piccoli locali
destinati a servizi igienici, con pianta a elle, provvisti di scarichi attraverso
i quali erano convogliate verso canalizzazioni esterne. Le volte che coprono i
tre piani dell'edificio, realizzate in conci di arenaria sono a crociera negli
ambienti a pianta quadrata e a botte lunettata negli ambienti rettangolari. I
rinfianchi delle volte erano riempiti, secondo un uso di origine romana con
sabbia e materiali fittili di scarto come è ancora possibile vedere attraverso
una apertura praticata in una volta tra primo e secondo piano. Gli architravi
dei vani interni ed esterni erano costituiti da tronchi di castagno. I
pavimenti erano in mattoni di argilla cotta posti a spina pesce mentre quelli
della sala della fontana erano in marmo. Le soglie erano in legno di rovere. Le
murature esterne sono molto spesse al piano terra e si riducono ai piani
superiori, presentano una maggiore ampiezza al piano terra che va oltre le
necessità statiche e riflette soltanto esigenze di difesa e di monumentalità
oltre che di coibenza termica. Sia le murature esterne che quelle interne sono
costituite da una doppia fodera di pietra da taglio con l'inclusione di
pietrame informe posto a secco o legato con malta. Le murature esterne erano in
origine intonacate con stucco prevalentemente bianco e rosso steso sulla pietra
viva e decorato con disegni policromi.
La Zisa (dall'arabo
'al-aziz = nobile, splendente) fu eretta sotto il regno di Guglielmo I
(1154-1166) ma fu completata da Guglielmo II (1166-1189) nel 1175. Danneggiata
nel corso delle lotte tra Angioini e Aragonesi fu concessa nel 1393 dal re
Martino I e dalla regina Maria a frate Giovanni de Thaus e nel 1399 al
siniscalco Guglielmo di Ventimiglia. Probabilmente in questo periodo fu
tagliata la preziosa cimasa continua danneggiando l'iscrizione araba in
caratteri cufici per realizzare una merlatura più consona al nuovo ruolo di
palazzo fortificato assunto dall'edificio. Nel 1440 Alfonso il Magnanimo
concesse il palazzo ad Antonio Beccadelli, detto il Panormita. Successivamente
passò a Giovanni de Vio, segretario del viceré Fernando de Acuña, poi al nobile
Pietro de Faraone e infine alla famiglia Alliata. Iniziò un periodo di
decadenza tanto che in occasione della epidemia di peste del 1575 l'edificio fu
adibito a deposito di oggetti posti in quarantena. Nel 1593 il Tribunale del
Santo Uffizio tolse la Zisa agli Alliata per assegnarla prima a Nicolò
Spatafora e successivamente a Giovanni Ventimiglia Marchese di Geraci Nel 1634
il palazzo versava in condizioni di degrado tali che l'asta per la vendita
dello stesso andò deserta e solo nel 1635 fu acquistato da Giovanni di
Sandoval, cugino del Viceré Marchese di Villena. Fu in quella occasione che il
palazzo subì profonde trasformazioni che ne alterarono profondamente l'aspetto
originario. In particolare fu realizzato un fastoso scalone che indebolì le
strutture murarie, furono inseriti balconi e allargate finestre, fu inserito un
arco ribassato tra il vestibolo e il salone della fontana riutilizzando le
quattro colonne tolte dal quadriportico del secondo piano, ammezzando il
vestibolo e tompagnando l'arcone centrale. In quella occasione fu pure coperto
lo spazio centrale del secondo livello e realizzata una sovrastruttura ancora
oggi presente. Fu pure creato un corpo di fabbrica che mise in connessione
l'ala nord del palazzo con la cappella della SS. Trinità (che alterata da
sovrastrutture sarebbe stata inglobata all'inizio dell'Ottocento nella chiesa
di Gesù, Maria e S. Stefano). Nel Settecento la Zisa costituì nonostante i
rimaneggiamenti apportati dai Sandoval, ancora oggetto di ammirazione da parte
di studiosi e artisti europei. Nel 1806 estintasi la famiglia Sandoval, la
proprietà passò a Francesco Paolo Notarbartolo e ai discendenti che ne
mantennero il possesso fino al 1955 anno che vide l'esproprio per conto della
Regione Siciliana. Nell'Ottocento (col rifiorire di studi medievalistici e di
teorie del restauro architettonico) il palazzo era stato oggetto di studi, di
rilievi e di progetti di ripristino da parte di studiosi stranieri e italiani
(Viollet Le Duc, Gally Knight, De Prangey, Goldscmidt, Palazzotto, Valenti ed
altri). I progetti di restauro ottocenteschi riproponevano le bifore, che
certamente dovevano caratterizzare l'immagine originaria dell'edificio: una
scelta datata, non proponibile dalle odierne teorie del restauro, data la
mancanza di reperti o documenti ai quali fare riferimento per una ricostruzione
non arbitraria.
Dopo l'esproprio
cominciarono i lavori di restauro consistenti nel ripristino del vestibolo,
dell'arcata nella facciata principale e in sporadici interventi all'interno,
trascurando il consolidamento delle strutture che davano evidenti segni di
fatiscenza. Già nel 1940 era crollata l'ala di collegamento tra il palazzo e la
cappella della SS. Trinità così che non destò sorprese il crollo del 13 Ottobre
1971 che coinvolse una vasta zona dell'ala Nord. Di fronte alla gravità dei
danni ci si trovò a dover scegliere tra la "reintegrazione" e
rifunzionalizzazione e il "restauro archeologico" (che presupponeva
cioè la non ricostruzione della parte crollata e il solo consolidamento, a livello
di rudere della parte restante). Prevalse la scelta della ricostruzione della
zona crollata, la reintegrazione delle scale nei vani originari, il
consolidamento statico e il restauro architettonico degli esterni e degli
interni con la conservazione di alcune significative aggiunte seicentesche. Per
la ricostruzione delle zone crollate fu utilizzato calcestruzzo armato (per le
volte) e mattoni pressati (per le murature), materiali che lasciati a vista,
oltre che assicurare stabilità, avrebbero consentito una chiara lettura delle
parti di ricostruzione. Tutte le fondazioni, le volte e le murature furono
rinforzate con barre d'acciaio, resine epossidiche e iniezioni di cemento. I
lavori di restauro, terminarono nel settembre del 1990 e dal giugno 1991 il palazzo
fu restituito alla città e destinato a Museo della Civiltà Islamica di Sicilia.
Ancora immersi negli aranceti, residuo di quella che
era la “conca d’oro”, dominata dal Monte Caputo o Monreale, sono visibili i
resti della Cuba Soprana, inglobati nella villa Napoli, e della Cubula dove la
volumetria araba si arricchisce del plastico bugnato che orla l’arco.
Il palazzo della Cuba voluto da
Guglielmo II, un tempo circondato da acque azzurre e dal verde dei giardini fu
costruito nel 1180, come dice la fascia epigrafica che fa da cimasa
all'edificio. Doveva essere noto in tutta Italia tanto che Boccaccio vi
ambientò la sesta novella della quinta giornata del Decamerone.
L'ingresso originario dell'edificio era quello
orientato verso Monreale, collegato alla terraferma tramite una passerella.
L'ingresso odierno serviva invece come accesso dopo l'attracco delle
imbarcazioni provenienti dalla peschiera. Dall'ingresso originario ci si
immetteva in una sala coperta utilizzata dal re per riposare. La parte centrale
dell'edificio era caratterizzata da un grande atrio forse scoperto, o coperto
da una cupola, circondato da un quadriportico formato da quattro arcate ogivali
sorrette da quattro colonne ai quattro angoli e coperto da volte a botte. Al
centro si trovava un impluvium stellare. L'ultima sala, aperta verso la città e
il mare collegava la sala centrale e la peschiera; era un vano cubico, coperto
da una volta a crociera, con tre nicchie sui tre lati. Il paramento murario,
rimaneggiato nei restauri del 1921 e 1936 (F. Valenti) è animato da alte arcate
cieche a doppia ghiera che contengono monofore, bifore o nicchiette sormontate
da conchiglie. Attorno all'edificio fu impiantato un campo sanitario durante la
peste del 1575 e presto cadde in rovina. Nel 1860 divenne proprietà dello stato
italiano.
Un gusto chiaroscurale, caratterizza altri capolavori
del periodo dei Guglielmi: la chiesa di S. Spirito (la chiesa dei Vespri) e
sempre a Palermo il campanile della Martorana (1180-1185). Qui, nella torre, il
gioco delle colonne di marmo (completato pare da quattro colonnine che
reggevano una rossa cupoletta) si inserisce nella pietra scura mossa da
plastiche evidenze.
La cattedrale, mirabile esempio di sovrapposizione di
stili, è sicuramente tra le architetture più rappresentative della città di
Palermo.
Il piano, già cimitero, che si trova nello spazio
antistante, presenta una transenna marmorea realizzata in alcune parti dallo
scultore Vincenzo Gagini (1574-75).
Tra il 1655 e il 1673 furono realizzate delle statue che
ancora oggi ornano la recinzione; il corpo di fabbrica dell'attuale cattedrale
è il prodotto di una serie di interventi che, in epoche differenti, hanno
contribuito ad arricchirlo e a renderlo unico ed irripetibile.
Prima basilica cristiana, fu in epoca musulmana
(827-1072) trasformata in moschea, la Moschea Giami, questa, formata da più
edifici doveva estendersi in un area comprendente anche l'attuale cappella di
S. Maria l'Incoronata. La vecchia moschea fu demolita e la nuova Cattedrale
di Palermo sorse (1184-85) ad opera di Gualtiero Offamilio, l'inglese
Walter of the Mill fattosi proclamare arcivescovo di Palermo, in funzione
antagonistica di quella di Monreale. I lavori di costruzione durarono meno di
un anno, grazie al riuso di colonne ed elementi strutturali della Moschea
preesistente. Una delle testimonianze superstiti é una pagina del Corano
scolpita sul fusto della prima colonna del portico meridionale.
I quattro campanili furono soprelevati oltre il
livello delle coperture nel XIV secolo, dando maggiore slancio alla struttura
originaria che si presentava come una chiesa-fortezza collegata alla grande
torre attraverso due arconi ogivali.
Nel 1510 Antonello Gagini inizia la costruzione della
grande tribuna marmorea posta nell'abside principale. Il portale principale,
quello laterale e la sacrestia risalgono al secolo XIV. Nella seconda metà del
XV secolo furono realizzati il portico meridionale ed il nuovo Palazzo
Arcivescovile.
Tra il
1781 e il 1801, l'intervento progettato dall'architetto Ferdinando Fuga e
portato a termine dal Marvuglia, modificò fortemente l'impianto, realizzando
l'attuale transetto e modificandone sia l'interno (rimozione del retablo
gaginesco, modifica dei sostegni e degli archi) sia la cupola, stravolgendo
irrimediabilmente i canoni linguistici della struttura originale. Nel 1805 fu
completata "in stile" la torre campanaria secondo il progetto di E.
Palazzotto. Ancora oggi, in ogni modo, nonostante le manomissioni, la
cattedrale di Palermo presenta come stile predominante quello fatimita,
orientaleggiante, che la rende unica tra le architetture dell'occidente
cristiano.
L’ampia spazialità del Duomo di Monreale si apre alle
influenze latino-cassinensi, ma le fonde con richiami arabeggianti (le colonne
nicchiate del presbiterio) e bizantineggianti nelle archeggiature intrecciate
delle absidi all’esterno, pur animate dal plasticismo di candide colonnine
marmoree.
Il
duomo di Monreale fondato nell’anno 1174 per volere di Guglielmo
II, l’ultimo dei re normanni di Sicilia, dedicato alla Madonna dal quale prende
il nome "Santa Maria Nuova" rappresenta oggi senza dubbio un vero e
proprio capolavoro dell’architettura arabo-normanna in Sicilia.
L’interno
dell’edificio presenta una pianta a croce latina suddivisa in tre navate
concluse da transetto e da tre absidi.
E’ la "Via Sacra" che si svolge da occidente
ad oriente e precisamente: dal portico serrato da due torri in pietra concia
fino all’altare. Le tre navate sono divise da 18 colonne di maggior diametro
nella parte centrale della navata per creare un piacevole effetto prospettico,
sormontate da capitelli in stile corinzio finemente decorati, rimontati con una
distribuzione spaziale a coppie, appartenenti probabilmente a templi romani del
nord-Africa come ci dimostra la raffigurazione del volto di Cerere in un
capitello. Tutte le colonne sono di granito, tranne una di marmo verde, come a
Cefalù, simboleggiante la fede, colonna-sostegno della chiesa, che nel 1837
l’architetto Arcangelo Sanzia fece rimuovere dal suo posto, seconda a destra,
scambiandola con la prima in modo che si vedesse meno entrando dalla
"Porta del Paradiso". I mosaici del Duomo di Monreale (1180-1194 ca.)
si dispongono su tre assi come alla Palatina, distribuendosi su vaste
superfici, sfolgorando sull’alta zoccolatura marmorea solcata e compenetrata da
decorazioni musive.
A Monreale la linea si frammenta e il senso cromatico
smorza verdi e blu accentuando la preferenza verso il grigio e il marrone. Gli
sfondi delle scene appaiono spesso costruiti prospetticamente. La resa degli
edifici è puntuale e intesa a tradurre sul piano forme e volumi. I corpi
vengono rivelati dalla linea. Si è pensato ad una immissione di artisti
veneziani nel XIII sec. Kitzinger riporta i mosaici al 1180 cioè all’epoca
degli imperatori Commeni ed a maestranze bizantine, secondo altri sarebbero
opera di maestranze locali educate dai Greci.
Le
102 scene con iscrizioni greche e latine raffigurano scene del Vecchio e Nuovo
Testamento estendendosi per ben 6436 mq e le figure sono tutte immerse in un fondo
d’oro.
E'
la seconda chiesa al mondo, dopo S. Sofia a Costantinopoli e prima di S. Marco
a Venezia ad avere una così vasta raffigurazione musiva che si svolge in unità
spaziale ben definita: nelle pareti della navata centrale è raffigurato il
grandioso ciclo del Vecchio testamento; su quelle delle navatelle laterali i
miracoli di Cristo, come ad esempio la guarigione dell’idrofobo e la
moltiplicazione dei pani; nel transetto le scene cristologiche dall’annunzio a
Zaccaria alla trasfigurazione; le storie di Pietro nell’ambiente che precede
l’abside meridionale; quelle di Paolo nell’analogo spazio a settentrione; ed
infine gli episodi relativi il Martirio dei Santi Casto e Cassio ed i Miracoli
di San Castrenze
risultano incastonati accanto e sotto le scene del vecchio testamento
precisamente nel registro inferiore della controfacciata.
Centro
di convergenza del Vecchio e del Nuovo Testamento e di tutte le concezioni
architettoniche e decorative della Basilica, è la grandiosa e possente immagine
del Cristo Pantocratore” (Dominatore Universale) che ammiriamo nel catino
dell’abside centrale.
La
figura umana e divina al contempo, tiene nella mano sinistra un libro aperto
nel quale si possono leggere in latino e in greco le testuali parole: “Io sono
la luce del mondo chi segue me non cammina nelle tenebre” e con la mano destra
invita tutti quanti al silenzio.
Posta
sotto Cristo é la solenne immagine della Madonna in trono con il bambino
benedicente circondata da Arcangeli e Apostoli e nella fascia inferiore della
parete absidale, le figure di 14 Sante e Santi. Due Papi posti nella parte più
interna e dai lati della finestra, per meglio esprimere il riconoscimento
dell’importanza del papato e della devozione ad esso voluta; oppure le figure
di Tommaso di Canterbury e Pietro d'Alessandria entrambi primati delle
rispettive chiese ed ambedue martiri e propagatori dei diritti della chiesa.
All'ingresso sulla parete occidentale interna ammiriamo nella lunetta sul
portale un’altra immagine della Madonna sotto la denominazione dell’Odigitria
cioè di Maria
che indica la via per il Bambino Gesù nelle sue braccia. E’ come già detto la
Via Sacra che si svolge fra l’immagine di Maria all’ingresso e quella di Maria
sul trono nell’abside maggiore del presbiterio destinato alle funzioni
liturgiche; l’unica zona, pare, ad essere dotata di un pavimento a mosaico a
lastre di marmo e di porfido fino al 1561, anno in cui il Farnese fa eseguire
dal maestro Baldassarre il pavimento della navata centrale in marmo rosso
siciliano, nero ligure e bianco toscano.
Solamente
30 anni dopo saranno completati i pavimenti delle navatelle per volere
dell’Arcivescovo Ludovico II Torres, il quale donò alla Cattedrale un bronzo
raffigurante S. Giovanni Battista, di fattura cinquecentesca, che fece collocare
entro una nicchia della navata destra, e si fece carico di dare una degna
sepoltura al corpo di Guglielmo II che fino allora giaceva sotto il pavimento
del Duomo nei pressi dell’altare maggiore, facendogli costruire un sarcofago di
marmo bianco, posto accanto a quello del padre. Nel 1811, un devastante
incendio propagatosi, da un ripostiglio sotto l’organo, distrusse gran parte
del tetto del presbiterio e delle cappelle laterali che fu ricostruito seguendo il
modello precedente con qualche variante nei colori, forse troppo accesi.
Anche
la copertura esterna del presbiterio fu ricostruita, ma solo sette anni dopo
l’incendio, per opera dell’architetto Luigi Speranza che modificò l’andamento
delle falde, la morfologia dei timpani e dei merli.
L’intero
complesso è inoltre suggellato dalle due porte bronzee del XII sec. che
chiudono gli unici vani d’accesso alla costruzione. La porta maggiore detta
anche "Porta del Paradiso" ubicata sul lato occidentale della
cattedrale chiusa all’esterno da un elegante portico, ricostruito dopo il
crollo avvenuto la notte di Natale del 1770, con tre archi a tutto sesto, fu
realizzata dallo scultore romanico Bonanno Pisano. Incorniciata da un ricco
portale formato da stipiti reggenti un arco a sesto acuto a sua volta circondato
da una cornice di forma pentagonale decorata da foglie d’acanto, essa
rappresenta il più grande monumento bronzeo dell’età romanica, misurando,
infatti, 780 cm. d’altezza e 370 cm di larghezza. Le 40 formelle di larghezza
uniforme (41 cm di alt. e 34 cm di larg.) riproducono il tema biblico della
storia dei rapporti tra l’uomo e Dio, come in tutta quanta la raffigurazione
musiva.
La
narrazione procede dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra: quelle
raffiguranti il Vecchio Testamento sono collocate sopra lo zoccolo formato da
doppi pannelli che ritroviamo alle sommità delle due ante.
Nei
primi sono raffigurati grifoni e leoni interpretabili come custodi-guardiani
del tempio; nei secondi, quelli posti in alto, sono raffigurate invece scene
relative l’Assunzione di Maria e la Gloria di Cristo.
Quanto
alla porta minore 423 cm per 215 cm, ubicata sotto il portico settentrionale, è
opera dello scultore Barisano da Trani che s’ispirò a modelli bizantini.
Essa
reca 28 formelle di bronzo incorniciate da un ricco motivo decorativo a
circonferenze intrecciate e da un'ornamentazione formata da girali,
raffiguranti varie immagini come quelle di Cristo in maestà entro la mandorla
ripetute sulle due ante, della Madonna dell’Odigitria, dei dodici apostoli o
quelle di due Santi cavalieri (Giorgio ed Eustachio) che alludono alla lotta
tra il bene e il male.
Tutta
la porta a sua volta è incorniciata da una fascia in mosaico decorato con
motivi geometrizzanti.
Successive
alla costruzione della Cattedrale sono le due cappelle del SS. Crocifisso,
principale testimonianza del Barocco Siciliano a Monreale e di San Benedetto.
Nel
Duomo oltre la sfarzosa cappella del Crocifisso vennero inseriti armonicamente
con i marmi mischi (caratteristica del barocco siciliano) gli altari del
Sacramento e della Madonna del Popolo assai venerata, che sarebbe stata
scolpita dal tronco di carrubo del famoso sogno di Guglielmo e l’elegante
altare della navata maggiore realizzato nella seconda metà del 700 dall’orafo
romano Luigi Valadier in argento e rame dorato.
Tutte
queste innovazioni, non turbarono le linee architettoniche e la decorazione
musiva del Duomo che costituisce il più gran libro del Vecchio e Nuovo
testamento mai realizzato "ciò che si può vedere di più completo di più
ricco e più impressionante per quanto concerne la decorazione a mosaico su
sfondo dorato" come fu definito dallo scrittore francese Guy de
Maupassant dopo avere ammirato questo tempio.
La
chiesa della Magione (1191) fonde i vari motivi fin qui
individuati in una sintesi magistrale e compatta. La nitida volumetria
dell’esterno con facciata a capanna, sigla e chiude lo slancio, all’interno,
delle strutture con la tipica successione di colonne nicchiate sovrapposte. La
spinta delle
membrature non si ripercuote però nelle volte.
Il
doppio transetto, i rincassi, la solenne spazialità ci dicono delle componenti
culturali di una alta e fermissima fantasia architettonica.
L’incontro
fra Oriente e Occidente conduce in Sicilia ad una limpida e serena scansione di
elementi architettonici.
La
massa qui è volume, distesa superficie chiaramente sentita. Il fondo classico
che imprime al romanico fiorentino la lineare eleganza delle sue partizioni, in
Sicilia ha puntuale riscontro nel gusto arabo della volumetria e tutto questo
concorre a superare in puri rapporti di volumi e di forme la tensione e il
contrasto delle forze, propri del romanico europeo.
I mosaici
Riguardo
ai mosaici in epoca normanna, conviene ricordare alcuni concetti base per
intendere l’arte bizantina e la rappresentazione musiva in particolare:
-
l’arte bizantina tende non a commuovere ma a placare, inducendo nell’animo del
contemplante una condizione psicologica che prefiguri l’eterna pace. In Sicilia
a siffatto intento estetico e mistico si accompagnano il senso dello splendore
e della magnificenza per l’esaltazione della gloria del regno normanno quale
mezzo e veicolo dell’affermazione della fede.
-
il principio compositivo tende non all’equilibrio ma alla subordinazione dei
temi e delle figure. La chiesa celeste predomina anche figurativamente sulla
Chiesa storica; Cristo è più grande degli apostoli.
-
la prospettiva è di frequente inversa. Sicché le immagini più grandi, invece di
stare in primo piano, come in un disegno prospettico dove le grandezze si
dispongono in scala decrescente, arretrano verso lo sfondo. Ne deriva un senso
per così dire trascinante dell’immagine che assorbe il contemplatore.
-
la plasticità è annullata dalle lumeggiature: reticoli di oro o colore che
annullano le forme, abolendo il chiaroscuro e quindi ogni possibilità di
modellato.
-
i corpi nudi o gli animali sono resi mediante stampigliature anatomiche: cerchi
concentrici che annullano i volumi.
Bibliografia:
F. Maurici - Breve Storia degli Arabi in Sicilia -
Flaccovio Editore - Palermo 1995
U. Scerrato - Grandi Monumenti ISLAM - Arnoldo
Mondadori Editore - Milano 1972
G. Caronia - La Zisa di Palermo - Editori Laterza -
Bari 1982
G. Bellafiore - La Cattedrale di Palermo - Flaccovio
Editore - Palermo 1976
C. De Seta L. Di Mauro - Le città nella storia
d'Italia PALERMO- Editori Laterza -
Bari 1981
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