venerdì 18 settembre 2015

Cos'è l'archeologia

                                     tratto da "Il Cricco Di Teodoro" Itinerario nell'arte I vol Zanichelli

lunedì 23 marzo 2015

Palladian Architecture

Palladianism is, loosely, a philosophy of design based on the writings and work of Andreas Palladio, an Italian architect of the 16th century who tried to recreate the style and proportions of the buildings of ancient Rome. His ideas and philosophy were widely imitated throughout Europe, and particularly in 18th century England.
The first architect to introduce the Palladian style to England was Inigo Jones, Surveyor-General under James I. Jones was responsible for several very early classical buildings, notably Queen's House, Greenwich, and the Banqueting House at Whitehall. In many ways Jones was ahead of his time, for it was not until well into the 18th century that adherence to the classical ideals of Palladio became truly widespread in England.

What characterizes English Palladian architecture? Grace, understated decorative elements, and use of classical orders. At its most rigid, Palladianism simply copied designs made popular in Italy by Palladio. Thus Colen Campbell (1676-1729) produced the square symmetrical block of Mereworth Castle, Kent, in imitation of Palladio's own Villa Capra.

Richard Boyle, Lord Burlington (1694-1753), was the foremost patron of the arts during the mid-18th century. More than any other person, Burlington was responsible for the popular success of Palladianism and the classical style in general in 18th century England. He was an immensely influential amateur architect who was responsible for Chiswick House, London (1725-29).

Palladian bridge at Stowe Landscape Garden ( a copy of the original Wilton House Palladian bridge )
Palladianism paid a great deal of attention to the alliterative, or symbolic nature of architectural elements. Thus, a mock temple of Ares (the Greek god of War) was not simply a building, but might symbolize war in the English world. The relationship of that temple to other architectural elements made a statement of the builder's philosophy. Nothing was "just" a decorative element.
The 18th century saw a huge growth in the number of ostentatious country houses such as Stowe and Stourhead. A whole new class of wealthy merchants and landed nobility competed to outdo one another in the building of lavish countryside estates and gardens. It is in the design of these country house estates that Palladian principles are most evident today.

The conservatory dome at Robert Adam's Syon House
One of the names most associated with Palladianism is that of Robert Adam. Adam, though a Scot, was based in London, where he became the most sought-after architect of his day. Although he was heavily influenced by Roman classicism, Adam balked at the slavish adherence to Roman style and proportions advocated by his peers. Instead, he used Roman style as a starting point for his own style, which can best be called "neo-classical". Adams designs are seen at their best at Syon House,Kedleston Hall,Harewood House, Osterly, and Kenwood House.

Palladian ideas and examples were widely disseminated through several influential books. Volumes such as Colen Campbell's Vitruvius Britannicus and William Kent's Designs of Inigo Jones were lavishly illustrated, and many Palladian architects took their inspiration from the detailed drawings in these "design manuals".

Major examples of Palladian architecture in England:

Syon House
Osterley Park
Stowe House
Stourhead House and Garden
Prior Park
Chiswick House


Chiswick House

giovedì 29 gennaio 2015

Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa
Il Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa, conosciuto anche come Memoriale della Shoah è un memoriale situato nel quartiere Mitte di Berlino, progettato dal'architetto Peter Eisenman, (Newark, NJ, 1932) assieme all'ingegnere Buro Happold, per commemorare le vittime della Shoah.
 Tra il 1988 e il 1989, numerose personalità quali Lea Rosh, Willy Brant, Günter Grass e Christa Wolf sottoscrissero un appello per la realizzazione di un monumento nel centro della città per ricordare lo sterminio degli ebrei in Europa. Nel 1994, vi fu un primo concorso pubblico per la progettazione del monumento che terminò tuttavia senza una definitiva assegnazione. 
Nel 1997 ci fu un nuovo concorso pubblico, al quale vennero direttamente invitati numerosi artisti ed architetti di fama mondiale; nonostante anche il cancelliere Helmut Kohl si fosse pronunciato a favore del progetto di Peter Eisenman, la votazione finale venne ritardata a causa delle elezioni politiche del Bundestag, che approvò la realizzazione del memoriale solo il 25 giugno 1999. Il 1 aprile 2003 cominciarono ufficialmente i lavori, che si conclusero il 15 dicembre 2004 con la posa dell'ultima stele.

  


L'inaugurazione del monumento si è tenuta il 10 maggio 2005, due giorni prima dell'apertura al pubblico. Il costo approssimativo del complesso è stato di 25 milioni di euro. Il monumento è stato edificato nell'area originariamente occupata dal palazzo e dalle proprietà di Goebbels ed occupa l'intera superficie dell'isolato tra le Ebertstraße, Behrenstraße, Berlinerstraße e Hannah Arendt Straße; consiste in una superficie di 19.000 m² occupata da 2.711 stele in calcestruzzo colorate di grigio scuro, organizzate secondo una griglia ortogonale, totalmente percorribile al suo interno dai visitatori. 
Le stele sono tutte larghe 2,375 m e lunghe 95 cm, mentre l'altezza varia da 0,2 a 4 m. Il terreno su cui sorgono è irregolare, e presenta diverse quote di elevazione. Ciò produce nel visitatore che si addentra in questa foresta di cemento un senso d’instabilità e disagio. Le più basse lungo il perimetro esterno, "fagocitano" gradualmente il visitatore che si addentra fra esse. L’architetto vuole provocare «una sensazione di essere nel presente» e «un’esperienza mai avuta prima, […] diversa e leggermente inquietante. Il mondo è troppo pieno d’informazioni e qui è un luogo senza informazione». L’idea su cui si fonda il progetto è quella di un sistema ordinato e razionale che, cresciuto fuori misura, perde il contatto con la ragione umana: dentro un ordine apparente si cela sempre il caos. In base al testo di progetto di Eisenman, infatti, le stele sono realizzate per disorientare, e l'intero complesso intende rappresentare un sistema teoricamente ordinato, che fa perdere il contatto con la ragione umana in un'angosciante solitudine. 
L’autore afferma di aver rifiutato ogni tipo di rappresentazione con mezzi tradizionali, che l’enormità dell’evento storico avrebbe reso inadeguata. Il suo intento è piuttosto quello di «presentare una nuova idea di memoria distinta dalla nostalgia. […] Oggi possiamo conoscere il passato soltanto attraverso una manifestazione nel presente». Egli pertanto desidera che il monumento sia «parte della vita quotidiana e […] parte della coscienza e del subconscio della Germania». Nell'angolo sud-est dell'area delle stele si ha accesso al sotterraneo "Centro di documentazione degli ebrei morti nella shoah", dove è possibile seguire un percorso che tratta simbolicamente le vicende personali e i destini di alcune vittime dell'olocausto attraverso citazioni, immagini e voci di testimoni. Nella prima sala viene riassunta la storia della politica nazionalsocialista dello sterminio dal 1933 al 1945 attraverso testi e fotografie. 
Si passa poi alla Sala delle dimensioni, nella quale, disposte ordinatamente sul pavimento, vengono riportate 15 testimonianze autentiche di uomini e donne ebrei durante la persecuzione e rinvenute in varie forme (messaggi lanciati dai treni della deportazione, lettere, ecc.). Alle pareti, le cifre delle vittime dell'olocausto suddivise per nazione. Nella Sala delle famiglie, 15 grandi pannelli riportano le origini, gli stili di vita, la cultura e il destino di altrettante famiglie ebree di tutta l'Europa caduta sotto il dominio nazista, corredati da fotografie e documenti personali. 
La Sala dei nomi è invece una sala vuota, nella quale vengono proiettati sulle quattro pareti e letti ad alta voce in più lingue i nomi e una breve biografia di ciascuna delle vittime ebree conosciute dello sterminio in Europa; nonostante la lista sia largamente incompleta, la sua lettura completa richiede un tempo di 6 anni, 7 mesi e 27 giorni. Nel foyer adiacente alla sala, è possibile accedere alla banca dati del Memoriale di Yad Vashem, che mette a disposizione i dati di oltre 3 milioni di perseguitati per ricerche personali. 
Alle pareti della Sala dei luoghi, pannelli che descrivono con testi ed immagini i principali luoghi dello sterminio. Inoltre, schermi sui quali vengono proiettati filmati commentati, 220 episodi e luoghi di deportazione e sterminio in tutta Europa. In nicchie lungo le pareti, telefoni dai quali è possibile ascoltare la descrizione e la storia dei campi della morte. Nella sala conclusiva, detta Portale dei memoriali il visitatore può usufruire di terminali informatici che aggiornano riguardo agli istituti di ricerca sull'olocausto e alle manifestazioni che si svolgono nei luoghi storici.

Si puo vedere un interessante video all'indirizzo:
Il MUSEO EBRAICO DI BERLINO
Dal 9 settembre 2001, data della sua apertura, il museo rappresenta la sintesi architettonica dell’identità culturale di un popolo, si pone anche come tangibile espressione della presenza e del ruolo degli ebrei in Germania, ma oltre tutto questo è un invito alla riconciliazione – fisica e spirituale – della città di Berlino con la Shoah.
Architecture is a language” è questo il concept che nutre l’architettura di Daniel Libeskind e che viene concretizzato attraverso una delle sue più importanti opere: il Jüdisches Museum.

Nato a pochi chilometri dalla capitale tedesca (a Lodz, in Polonia) e appartenente a una famiglia decimata dallo sterminio, Libeskind presentò il suo progetto al Senato di Berlino nel 1988, un anno prima della caduta del muro. Alla base della sua proposta era il desiderio di affrontare, in un’unica struttura, temi ampi e complessi come la storia degli ebrei tedeschi e il vuoto lasciato dalla loro assenza a Berlino, per arrivare infine a offrire un simbolo di speranza per un nuovo corso storico, per Berlino e per l’Europa.
Originariamente, il progetto nasce per ampliare il preesistente edificio storico del Museo di Berlino, inserendosi nel quartiere barocco, il Friedrichstadt sud, distrutto dalla guerra.
L’originaria idea di ampliamento e di integrazione al Museo preesistente viene stravolta da un progetto che riassume la storia degli ebrei in Germania.

L’architetto ha definito il suo progetto “between the lines” perché è proprio tra una serie di intersezioni di linee che dà vita a un corpo edilizio scultoreo, dal profilo drammaticamente spezzato, che, visto dall’alto, riprende la forma geometrica di una saetta; da qui il soprannome blitz, che in tedesco significa fulmine.
Un taglio, una ferita che scolpisce, graffia il disegno urbano della città; un segno forte percepibile dall’osservatore esclusivamente attraverso una vista aerea, che si materializza anche tramite il rivestimento esterno in zinco, anch’esso “squarciato” da aperture oblique di diverse dimensioni.
La luce filtra attraverso fessure asimmetriche che sembrano pugnalate nell’altrimenti liscia facciata del monolitico edificio. In realtà le finestre-fessure seguono uno schema preciso: ricalcano la posizione – identificata su una mappa della Berlino pre-bellica – delle case dove abitavano eminenti cittadini ebrei e tedeschi. Il museo è un volume che si chiude in se stesso, privo di qualsiasi contatto con la città; non ha un accesso diretto dall’esterno e per poter accedere bisogna passare dal vecchio edificio.

L'entrata al museo è stata intenzionalmente resa difficile e lunga, per far rivivere al visitatore il difficile cammino della storia ebraica.
 

L’ingresso è costituito da uno squarcio su una parete bianca e conduce a degli spazi caratterizzati da un gioco di muri bianchi, neri, spigolosi, inclinati che, grazie anche alla luce fredda emessa dai neon, accentuano la sensazione di tensione, di angoscia e di dolore.

Una rampa di scale che collega i due edifici conduce a un sotterraneo scomposto in tre assi, una sorta di tridente, che simboleggia i diversi destini del popolo ebraico: l’asse dell’Olocausto confluisce a una torre denominata la Torre dell'Olocausto; l’asse dell’Esilio conduce a un giardino quadrato esterno, denominato Giardino dell’Esilio; l’asse della continuità, collegato agli altri due corridoi, rappresenta il permanere degli ebrei in Germania nonostante l’Olocausto e l’Esilio.

Il percorso che conduce alla torre dell'Olocausto, parte da un muro nero. Il nero diventa il simbolo della tragica assenza di razionalità e amore, il simbolo del “sonno della ragione”.
Al termine della strada ci si trova di fronte a un portone imponente, ad li là del quale si apre la torre: una struttura completamente vuota, buia, circondata da alte pareti in cemento. Non c’è nessuna finestra da cui guardare, ma soltanto una stretta feritoia posta in alto, dalla quale riesce a filtrare la luce diurna.

È impossibile vedere fuori e capire dove si è, così come accadeva agli Ebrei nei campi di concentramento. L’aria entra attraverso piccoli fori praticati su una parete, che richiamano quelli attraverso cui veniva immesso il gas nelle camere di morte.
Simbolica diventa anche una scala metallica a circa due metri e mezzo dal pavimento; mezzo di salvezza e di speranza che ha nutrito gli animi degli ebrei, ma qui è irraggiungibile, così come la salvezza di molti di essi.

Durante il percorso a un tratto la materia si “smaterializza”, il pieno viene svuotato per condurre il visitatore a meditare; sono pause di raccoglimento e silenzio.
Il vuoto, tema dominante del museo, assume un grande significato: l’impossibilità di colmare secoli di sofferenze e di dolore. Ma a tratti questo silenzio viene interrotto dal suono freddo del metallo: sono i visitatori che addentrandosi nel grande vuoto calpestano una fitta e assordante distesa di piccole facce di ferro dalla bocca sbarrata in un urlo.
Shalechet, ovvero le foglie morte, dell'artista israeliano Menashe Kadishman; un'opera iniziata nel 1997 - e dichiaratamente tuttora incompiuta. La moltitudine di faccine di ferro semi-arrugginito, tonde e piatte, sofferenti, vengono inevitabilmente calpestate dal visitatore, rievocando così inevitabilmente il ricordo delle vittime della Shoah.

Proseguendo si incontra il secondo asse che conduce al Giardino dell’Esilio; attraverso una porta vetrata si entra in contatto apparente con l’esterno. Un alto muro di cemento avvolge la superficie quadrata del giardino in modo tale che dall’esterno non si possa vedere nulla.

Dentro il giardino, quarantanove pilastri in cemento armato svettano in cielo, recando in sommità degli alberi, definendo una sorta di labirinto che reca anch’esso la sensazione di disagio. Il numero dei pilastri serve a ricordare la data di nascita dello Stato di Israele (1948) e la colonna in più, centrale, rappresenta la città di Berlino. Gli alberi, gli olivagni, simbolo di pace, collocati in contenitori stretti (che ne rendono difficile la crescita) rappresentano invece la forza e il coraggio degli ebrei esiliati.
L’uso di un piano di calpestio inclinato di sei gradi è stata una tecnica voluta da Libeskind affinché il visitatore provasse la stessa sensazione di straniamento e disagio che hanno provato gli ebrei: camminando tra i pilastri si prova, infatti, una straniante mancanza di equilibrio. Infine, la terza strada è rappresentata da una lunga scala che, col suo moto ascensionale, accompagna il visitatore alle sale espositive disposte su tre piani. Questo è un percorso illuminato attraverso lucernari e finestre laterali.

La sua linearità simboleggia la continuità della storia e la consapevolezza del fatto che la vita va avanti, che esiste una speranza di salvezza. Ma, percorrendo la scala, lo sguardo viene drammaticamente “attaccato” da intrecci di travi strutturali inclinate che, come schegge, penetrano nei muri che camminano parallelamente alla scala rendendo lo spazio, ancora una volta, teso ed emozionante. Loro funzione è inoltre quella di ricordare l’imprevedibilità della storia.

Il Museo Ebraico di Berlino testimonia dunque la forza espressiva di un’architettura capace di essere “compresa” senza bisogno di intermediazioni.

E' possibile vedere interessanti  video sul museo a questi indirizzi