lunedì 16 dicembre 2013

Dall'Albergo delle Povere alla Necropoli punica passando per il Palazzo della Cuba.

A poca distanza da Piazza Indipendenza procedendo su Corso Calatafimi in direzione di Monreale è facile notare sulle destra un edificio molto esteso sul fronte stradale: l'Albergo delle Povere, così come oggi viene chiamato.
L'Albergo dei Poveri fu fondato con il nome di Reale Albergo dei Poveri nel 1733, durante il vicereame austriaco, con lo scopo di accogliere poveri inabili, storpi, giovani vagabonde ed orfane e ospitato originariamente nei locali del cosidetto “Serraglio” nell'ex Convento degli Agostiniani (sito in via Rocco Pirri nei pressi della Stazione C.le). Uno dei fondatori fu Ferdinando Francesco Gravina, principe di Palagonia, il cui busto è possibile vedere oggi all'interno del cortile centrale dell'edificio di C.so Calatafimi.
Cortile e chiesa di S.Maria della Purificazione
Il progetto per un nuovo edificio fu intrapreso durante il regno di Carlo III di Borbone. Inizialmente affidato all'architetto Orazio Furetto, il cantiere fu poi seguito fino al termine dei lavori dagli architetti Giuseppe Venanzio Marvuglia e Nicolò di Puglia. I lavori di costruzione presero avvio nel 1746 e durante la costruzione furono rinvenuti dei sepolcri fenicio-punici; i lavori durarono più di 25 anni, tanto che la struttura fu inaugurata solo l'8 agosto del 1772, ai tempi di Ferdinando III, e solo allora vi furono trasferiti gli ospiti della sede del “Serraglio” che da allora fu denominato “Serraglio vecchio” per distinguerlo dai nuovi locali.
Nel primo cortile prospetta una chiesa a pianta rettangolare, dedicata a S. Maria della Purificazione, costruita tra il 1773 e il 1799.
Dal 1898 l'edificio fu riservato soltanto alle donne tanto che il suo nome fu cambiato in Albergo delle Povere.
Oggi appartiene parte alla Regione Siciliana e parte alla facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli studi di Palermo; inoltre è sede di mostre temporanee e convegni. Recentemente ha ospitato una interessante mostra sugli Etruschi e la Collezione Casuccini, solitamente esposta al Museo A. Salinas, attualmente chiuso per restauri.
Attraversando corso Calatafimi al n°100, oltrepassato un arco, è possibile ammirare il Palazzo della Cuba.
Il Palazzo della Cuba
Questo, voluto da Guglielmo II, un tempo circondato da acque azzurre e dal verde dei giardini fu costruito nel 1180, come dice la fascia epigrafica in caratteri nashi che fa da cimasa all'edificio (un calco dall'originale con relativa traduzione del testo è visibile, insieme ad alcuni conci ritrovati recentemente, nel piccolo e interessante museo che si trova a fianco del palazzo).
Doveva essere noto in tutta Italia tanto che Boccaccio vi ambientò la sesta novella della quinta giornata del Decamerone.
L'ingresso originario dell'edificio era quello orientato verso Monreale, collegato alla terraferma tramite una passerella. L'ingresso odierno serviva invece come accesso dopo l'attracco delle imbarcazioni provenienti dalla peschiera. Dall'ingresso originario ci si immetteva in una sala
Pianta del Palazzo della Cuba
coperta utilizzata dal re per riposare.
La parte centrale dell'edificio era caratterizzata da un grande atrio forse scoperto, o coperto da una cupola, circondato da un quadriportico formato da quattro arcate ogivali sorrette da quattro colonne ai quattro angoli e coperto da volte a botte. Al centro si trovava un impluvium stellare. L'ultima sala, aperta verso la città e il mare collegava la sala centrale e la peschiera; era un vano cubico, coperto da una volta a crociera, con tre nicchie sui tre lati. Il paramento murario, rimaneggiato nei restauri del 1918-25 e 1936 (F. Valenti) è animato da alte arcate cieche a doppia ghiera che contengono monofore, bifore o nicchiette sormontate da conchiglie. Attorno all'edificio fu impiantato un campo sanitario durante la peste del 1575 e presto cadde in rovina. Nel 1860 divenne proprietà dello stato italiano e pertinenza della caserma L. Tukory. Proprio all'interno del vecchio recinto della caserma è possibile visitare la Necropoli punica.
Necropoli punica, tombe a fossa
Durante l'epoca punica, la necropoli era ubicata fuori le mura cittadine, su un'area a monte che era la naturale continuazione del tratto di terra generato dai due fiumi Kemonia e Papireto.
Dal 1746, anno delle prime scoperte avvenute in occasione della costruzione del Albergo dei poveri, sono state rinvenute oltre settecento tombe.
Tra febbraio e giugno del 2004 si è completato lo scavo di una porzione della necropoli: sono state scavate in tutto circa 150 sepolture, risalenti dal VII al III secolo a.C. distribuite soprattutto sotto la caserma Tukory.
A questa indagine sistematica si sono affiancate alcune scoperte casuali con scavi d'emergenza. Una tomba a camera ipogeica è stata scoperta, in occasione della messa in opera della nuova rete idrica, all'angolo tra la via Maggiore Amari ed il corso Calatafimi, consentendo di recuperare uno dei corredi più antichi dell'intera necropoli, caratterizzato dalla presenza di forme tipiche del repertorio fenicio.
Necropoli punica, Tombe a camera
Altre due tombe a camera ipogeica sono state rinvenute nel corso dei lavori di restauro del complesso monumentale dell'Albergo dei poveri di corso Calatafimi.
In base al numero consistente delle sepolture alcuni studiosi hanno pensato di poter dare conferma alle parole di Polibio (I, 38) che definì Palermo «la città più importante dell'eparchia cartaginese».
I tipi di sepoltura erano diversi: potevano essere delle semplici fosse o pozzetti per urne cinerarie, scavati nella terra o sarcofagi scavati nella calcarenite e ricoperti da tegole in terracotta o da una lastra sempre in calcarenite. A volte si avevano delle tombe a camera: una scaletta scavata nella roccia permetteva di accedere ad un piccolo ambiente sotterraneo che ospitava il sarcofago (in cui venivano posti gli oggetti personali del defunto), solitamente coperto da lastre di terracotta o di pietra, sopra le quali veniva deposto il corredo.
Le sepolture sono prevalentemente a inumazione, ma ve ne sono anche ad incinerazione.
All'interno delle sepolture sono state trovati ricchi corredi composti da vasellame, di produzione locale o d'importazione greca ed etrusca, monili d'argento e di bronzo, amuleti, armi e grossi orci destinati a contenere viveri e bevande.


Bibliografia:
A.Chirco-Palermo la città ritrovata itinerari fuori le mura- Dario Flaccovio Editore- Palermo 2006
F. Spatafora- da Panormos a Balarm Nuove ricerche di archeologia urbana- Eurografica Palermo 2005

martedì 3 dicembre 2013

Le "Catacombe dei Cappuccini" di Palermo

A Palermo tra i complessi catacombali veri e propri vanno annoverate la Catacomba paleocristiana di Porta d'Ossuna, dal nome del viceré Pietro Giron duca d'Ossuna, e quella non meno importante, anche per l'anomala tipologia, di S. Michele che si sviluppa, presso il complesso gesuitico di Casa Professa, al di sotto della Chiesa medievale di S. Maria della Grotta.
A questi vanno altresì aggiunti altri complessi ipogeici minori, attualmente non accessibili. Sono vere e proprie opere architettoniche “costruite” scavando opportunamente il banco di calcarenite giallastra su cui si sviluppa la città di Palermo e non grotte o cunicoli atte ad evocare, più o meno romanticamente, la nostra fantasia. Non vanno confuse quindi con il cimitero ipogeico dei Cappuccini, che come “catacomba” viene inopportunamente presentato ancora oggi a turisti e visitatori della nostra città.
Volendo quindi descrivere le cosidette  "Catacombe dei Cappuccini" bisogna innanzitutto dire che queste sorsero come semplice luogo di sepoltura di un gruppo di religiosi e il loro attuale sviluppo ed aspetto lo si deve, per certi versi, al caso. L'Ordine dei frati minori cappuccini, fondato nel 1520 è uno dei tre ordini mendicanti che costituiscono i Francescani. Giunti a Palermo nel 1534, i Cappuccini, come era consuetudine, costruirono fuori le mura la loro chiesa dietro la quale inizialmente seppellirono i loro morti in una fossa comune presso il lato meridionale della chiesa.
Intorno al 1599 i frati trasferirono le salme di 40 frati precedentemente sepolti nella fossa comune, dimostratasi insufficiente, in una cavità naturale presente al di sotto dell’altare maggiore della chiesa. Ben presto, si rese necessario ampliare anche questa, perchè ormai satura, realizzando la prima parte del corridoio dei frati. Le salme furono poste tutte attorno alle pareti, collocando al centro in una nicchia l’immagine della Madonna, oggi non più esistente. Ripresi i lavori di ampliamento nel 1601, fu scavata una seconda stanza, la seconda parte del corridoio dei frati, a cui si arrivava per mezzo di una scala con accesso dalla sagrestia. Dal 1601 al 1678 si continuò a scavare unificando il corridoio dei frati e realizzando buona parte di quello degli uomini; i lavori continuarono fino al 1732 con la realizzazione del corridoio dei professionisti e di parte di quello delle donne, raggiungendo l’attuale dimensione: quattro corridoi formanti un impianto di forma rettangolare diviso da un quinto corridoio, quello dei sacerdoti. La sistemazione definitiva fu opera del frate architetto Felice La Licata da Palermo nel 1823. Dopo di allora si effettuarono soltanto opere di manutenzione ordinaria o straordinaria, come quelle successive ai bombardamenti dell'11 marzo del 1943 che distrussero l'altare del Crocifisso, posto in fondo al corridoio dei professionisti.
La fama delle “catacombe” è soprattutto legata al fatto che dal Seicento fino al 1881 furono scelte come luogo di eterno riposo dai cittadini più in vista di Palermo. Lungo i corridoi riservati a uomini, donne, professionisti ed ecclesiastici, si contano circa 8000 corpi scheletriti, mummificati, alcuni imbalsamati altri deposti in urne e bare. La visione può risultare sconcertante e inquietante e forse proprio per questo ha destato la curiosità di diversi visitatori fra cui il poeta Ippolito Pindemonte, che visitò le catacombe nel giorno dei morti nel 1779 e le decantò nei versi “I Sepolcri”, (vv. 126-136):
 
«..:spaziose, oscure
stanze sotterra, ove in lor nicchie, come
simulacri diritti, intorno vanno
corpi d'anima voti, e con que' panni
tuttora, in cui l'aura spirar fur visti;
sovra i muscoli morti e su la pelle
così l'arte sudò, così caccionne
fuori ogni umor, che le sembianze antiche,
non che le carni lor, serbano i volti
dopo cent'anni e più: Morte li guarda,
e in tema par d'aver fallito i colpi».


La città di Palermo, grata e riconoscente all’illustre poeta, chiamò la strada che porta alla Chiesa e quindi al cimitero "Via Pindemonte". Sembra che Giacomo Leopardi abbia tenuto presente questo passo dei Sepolcri del Pindemonte nel suo Paralipomeni della Batracomiomachia, (un ampio poemetto satirico in ottave scritto a partire dal 1831 durante il suo soggiorno napoletano) al canto VIII , stanza 16:

Son laggiù nel profondo immense file
di seggi ove non può lima o scarpello,
seggono i morti in ciaschedun sedile
con le mani appoggiate a un bastoncello,
confusi insiem l'ignobile e il gentile
come di mano in man gli ebbe l'avello.
Poi ch'una fila è piena, immantinente
da più novi occupata è la seguente.
Colatoio, Catacombe dei Cappuccini

Oltre al Pindemonte le “Catacombe” destarono la curiosità del celebre scrittore francese Guj de Maupassant che, avendole visitate nell’anno 1885, si soffermò lungamente sul metodo dell’essiccamento. In effetti la mummificazione era un’opera di perfezionamento di uno stato di straordinaria conservazione che l’ambiente sotterraneo costituito da rocce calcarenitiche, con la sua temperatura e umidità costante garantiva, consentendo l’essiccazione dei corpi anziché la loro completa decomposizione. Il procedimento di mummificazione (naturale) appresso descritto, era praticato a Palermo da e per i religiosi in altre
Colatoio, Chiesa di S.Orsola dei Neri
cripte di chiese, cappelle ed oratori quali quella di S.Orsola dei Neri, dei Cocchieri, delle Ree Pentite, del Carminello etc. e fuori Palermo ad esempio a S.Stefano di Quisquina o a Burgio. Dopo la cerimonia funebre, le salme venivano poste all'interno dei colatoi (stanze il cui perimetro era delimitato da lettucci composti da doccioni di terracotta o “catusi”su cui venivano distese le salme) dove rimanevano per un periodo da otto mesi ad un anno; il tempo necessario perché si decomponessero in maniera naturale, liberando i liquami e pervenendo ad un primo stadio di essiccamento. Dai colatoi i cadaveri venivano trasportati in un recinto chiuso e ventilato dove venivano lavati e ripuliti con aceto, quindi esposti all’aria per diversi giorni. In alcuni casi, specie durante le epidemie, i corpi venivano trattati con un bagno in arsenico o in latte di calce. Sembra che il bagno in latte di calce divenne poi consueto in aggiunta al metodo di essiccamento in colatoio. La salma, dopo il trattamento, si riduceva allo stato di scheletro, non di rado rivestito anche da uno strato dell’epidermide originale, ben conservato e più resistente. Veniva rivestito, utilizzando a volte della paglia per riconfigurare il volume del corpo, e inchiodato a un asse di legno
La piccola Rosalia Lombardo
per consentirne la collocazione e il posizionamento. Questa pratica continuò fino al 1885, anno in cui i frati cominciarono a rispettare il divieto delle essicazioni sancito nel 1881, con una eccezione. Nel 1920 fu riposta e imbalsamata la salma delle piccola Rosalia Lombardo, morta il 6 dicembre di quell’anno, mummificata secondo i canoni tradizionali ma imbalsamata dal Dottor Alfredo Salafia. Questi
(Palermo, 7 novembre 1869 – Palermo, 31 gennaio 1933), aveva messo a punto un metodo di conservazione della materia organica basato sull'iniezione di sostanze chimiche. Dopo aver applicato a lungo il proprio sistema per esperimenti tassidermici, nel 1900 ottenne il permesso di sperimentare il composto su cadaveri umani. La perfetta conservazione dei corpi suscitò presto ammirazione ed interesse, così venne convocato per restaurare il corpo di Francesco Crispi, imbalsamato a Napoli, ma giunto a Palermo in condizioni di conservazione precarie.
Grazie alla minuziosa opera di restauro fu chiamato per la preparazione di personaggi preminenti, in modo tale che le loro salme potessero essere esposte per un lasso di tempo prolungato. Tra essi si ricordano il Cardinal Michelangelo Celesia, Il Senatore Giacomo Armò, l’Editore Salvatore Biondo, e l’etnografo Giuseppe Pitrè. Il Dottor Salafia non svelò mai il procedimento chimico utilizzato. Nel caso di Rosalia Lombardo i risultati sono ancor oggi visibili : la piccola, grazie alla pienezza dei tratti del viso, sembra solo addormentata.


Bibliografia:

Flaviano D. Farella - Cenni storici della chiesa e delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo
Ed. “Fiamma Serafica” 1982 Palermo.
Dario Piombino Mascali - Il Maestro del Sonno Eterno. Presentazione di Arthur C. Aufderheide. Prefazione di Albert R. Zink. Ed. La Zisa, 2009 Palermo.