mercoledì 25 gennaio 2012

Agrigento


Agrigento : la storia

Il territorio agrigentino è stato abitato fin dalla preistoria, come dimostrano le testimonianze riferibili all'età del Rame e del Bronzo, individuate nelle immediate vicinanze della città attuale, Alla fine del sec. VII a.C. risalgono i primi segni di influenza greca (necropoli arcaica di Montelusa in prossimità della costa, a O dell'odierna San Leone), che divengono sempre più consistenti agli inizi del sec. VI a.C.. La fondazione di Akragas (Agrigentum dei Romani) per opera di coloni rodii e gelesi condotti dagli ecisti Aristonoo e Pistilo, segna un'importante tappa nel processo di espansione verso l'interno e lungo la fascia costiera della colonia-madre Gela. Tale fondazione va collocata intorno al 580 a.C., e pone Agrigento fra le ultime colonie greche fondate in Sicilia. La città, poco distante dal mare e protetta, a N, dalle colline dell'acropoli, cresce rapidamente per estensione e per importanza politica; durante il governo del tiranno Falaride (570-555 a.C.) si consolida il primo nucleo urbano, e probabilmente nello stesso periodo viene costruita la cinta delle mura (di cui rimangono lunghi tratti), concepita come potenziamento delle difese naturali del sito col rafforzamento dei punti più deboli. A questa fase sono da riferire alcuni edifici di culto, posti nell'angolo SO della collina dei Templi (parte del Santuario delle divinità ctonie e altri piccoli sacelli). La politica espansionistica, avviata già a partire dalla metà del sec. VI a.C., raggiunse i massimi risultati durante il governo del tiranno Terone (488-473 a.C.) che, con la vittoria di Imera sui Cartaginesi (480 a.C.), estese il suo controllo militare sul vastissimo territorio compreso tra la costa meridionale e la costa tirrenica, e delimitato a est dal F. Salso (o Imera Meridionale) e a ovest dal F. Plàtani (l'antico Halykos). La vittoria di Imera accresce lo sviluppo economico della città e promuove una fioritura di manifestazioni artistiche, che trova riscontro nella costruzione quasi contemporanea dei magnifici templi sul limite meridionale della collina. Gli scavi non hanno restituito precise testimonianze dell'organizzazione dell'impianto urbano di questo periodo: all'interno del quadrilatero delimitato dal naturale andamento del terreno e definito dalle opere di fortificazione, la città dovette estendersi ad occupare l'area dell'attuale Valle dei Templi, secondo lo schema regolare che, probabilmente, costituì la matrice della città ellenistico-romana. Nella seconda metà del sec. V a.C. ad Agrigento si instaura un regime democratico e la città gode di una relativa tranquillità, fino a che, nel 406 a.C., viene assediata, saccheggiata e incendiata dai Cartaginesi, impegnati nella conquista dei territori della Sicilia occidentale. Dopo un periodo di abbandono, risorse con Timoleonte, vincitore dei Cartaginesi (340 a.C.), considerato suo secondo fondatore: la città venne riedificata nello stesso sito, secondo un nuovo piano urbanistico, in parte ancora leggibile negli scavi del cosiddetto “quartiere ellenistico-romano”. Per la sua posizione all'interno del territorio controllato da Cartagine, Agrigento stabilì con questa patti di alleanza; fu conquistata dai Romani una prima volta nel 262 a.C. e, definitivamente, nel 210 a. C. Negli ultimi secoli della Repubblica e nei primi dell'Impero, la città, unico emporio superstite sulla costa meridionale, godette ancora di un relativo benessere, dovuto al rifiorire dell'agricoltura e del commercio. La decadenza di Roma e l'avvento del Cristianesimo provocano una vistosa contrazione demografica e un impoverimento della città; testimonianze di questo periodo e del successivo bizantino sono situate nell'area della vasta necropoli a sud della collina dei Templi. Intorno al sec. VII d.C. vengono progressivamente abbandonati i quartieri della città antica, mentre i pochi abitanti rimasti si arroccano sul lato della collina di Girgenti. Occupata dai Musulmani nell'828, la città si popolò rapidamente, crebbe per importanza economica e divenne la capitale dei Berberi, spesso in lotta con i gruppi etnici arabi anch'essi impegnati nell'occupazione dell'isola. Tracce della presenza di queste popolazioni di lingua e cultura araba rimangono in alcuni toponimi (il sobborgo del Rabato, la porta Bibinia, la via Bac Bac), oltre che nel nome Girgenti (arabo Gergent) che la città conservò fino al 1927, nonostante le vistose trasformazioni dell'impianto urbano: ancora oggi, inoltre, il tessuto viario della città è fortemente caratterizzalo da elementi urbanistici di tradizione islamica (vicoli e cortili). Dopo la conquista normanna del 1087 e la ricostituzione della sede vescovile (dotata di un vastissimo territorio di pertinenza), la città mantenne la sua importanza economica, basata soprattutto sulle relazioni commerciali con il Nord Africa, e divenne centro di raccolta dei Musulmani ancora presenti in Sicilia, fino alla loro espulsione (1245) operata da Federico II di Svevia.

Nel sec. XIV nobili famiglie, quali i Chiaramonte e i Montaperto, imposero la loro supremazia sulla città, usurpandone la demanialità: ai Chiaramente si deve la costruzione della cinta muraria, che inglobava, oltre alla Cittadella detta anche “Terravecchia», i borghi di S. Francesco, S. Pietro e S. Michele; le coeve fondazioni dei complessi conventuali di S. Francesco (a E) e di S. Domenico (nella prima sede sito a O nel sobborgo del Rabato, fuori le mura) segnano i limiti dell'espansione urbana. Durante i secoli seguenti (XV-XVI-XVII) la città subisce un progressivo spopolamento; a partire dal sec. XV questa tendenza si aggrava in seguito alla politica di ripopolamento del feudo, avviata da alcuni nobili feudatari agrigentini con la fondazione di numerosi centri agricoli. L'attività costruttiva nel centro urbano, che si contrae sempre più all'interno delle mura, è limitata ad alcuni palazzi baronali e ad interventi di carattere religioso. Il sec. XVIII segna per la città una ripresa sociale ed economica. Nel XIX e XX sec. la città va progressivamente spopolandosi causa l’emigrazione. A partire dagli anni ‘60 del ‘900 una rapida e caotica urbanizzazione, spesso abusiva, ha trasformato e gravemente compromesso il paesaggio (frana del 1966).

Negli ultimi anni il F.A.I. si è adoperato per la riqualificazione del parco della Colimbetra, la “piscina” dell’Akragas greca.

La città antica


Occupava un'area di circa 1817 ettari, già dai primi tempi cinta da una poderosa cerchia muraria turrita, in una zona compresa tra il fiume Akragas (oggi S. Biagio) a est e il suo affluente Hypsas (oggi Drago) a O; presentava all'interno una parte rocciosa adatta alla difesa e costituita dalla collina occidentale (m 326) e dalla rupe Atenea (m 351).

Gli edifici di maggior rilievo, i templi, sono tutti in stile dorico e sono stati costruiti in pietra arenaria conchiglifera di colore giallo (che al fuoco si arrossa, conservando così tracce degli incendi).

Seguendo la via dei Templi si ha, sulla sinistra, un gruppo di consistenti resti di case, comunemente intesi come “quartiere ellenistico-romano”.

Su un'area di oltre 10000 mq si estende un imponente complesso urbano, di tracciato regolarissimo, che sembrerebbe sorto, su un altro più antico dì simile impianto, nella seconda metà del sec. IV a.C. (all'epoca cioè della seconda fioritura della città, con Timoleonte), e sarebbe durato, attraverso varie vicissitudini, fin verso il sec. IV-V d. C. Il sistema stradale è quello detto “ippodameo” (da Ippodamo di Mileto, urbanista greco del sec. V a.C. teorizzatore del sistema ortogonale), che ebbe in Agrigento un impiego fra i più grandiosi di tutto il mondo antico. Nell'area scavata si contano quattro cardini N-S (Stenopoi) paralleli ed equidistanti, che sboccavano tutti a N su un decumano (plateia), sopra il quale ora passa un tratto della statale. Le insule definite dalla griglia stradale sono occupate da abitazioni di varia forma, sia a peristilio ellenistico che ad atrio di tipo italico. Molte case (particolarmente interessanti la casa del peristilio, la casa delle svastiche, la casa della gazzella, la casa del maestro astrattista) conservano pavimenti musivi, a intrecci geometrici o con rappresentazioni fitomorfe e zoomorfe, databili al sec. I-II d. C.. Accurata la rete

degli scoli delle acque piovane e dei liquami. Sul cardine II, a destra, resti di due tabernae.

Nei pressi si trova la chiesa di S. Nicola, con il complesso delle strutture del Museo regionale e della Soprintendenza Archeologica, realizzato nel 1967. Lasciato il Museo Archeologico, verso S si raggiunge il piazzale di parcheggio realizzato sulla zona dell'agorà. A sin. (E) si stacca la via dei Templi, che correndo lungo la cresta della collina dei Templi, tocca i maggiori edifici sacri (templi di Ercole, della Concordia, di Giunone Lacinia); a destra, oltre il tempio di Giove, si estende una vasta area sacra. Procedendo invece brevemente verso S si attraversano i pochi resti della Porta IV o Aurea (così detta con denominazione bizantina), la principale di Akragas, che conduceva all'antico emporio e per la quale entrarono i Romani nel 210 a. C. Appena fuori dalla porta, si estende, a sinistra, la necropoli romana detta Giambertoni (I-III sec. d. C.).

Si tratta di un vasto cimitero esteso sulle pendici della collina fuori dalle antiche mura, che continua a S nei territori della piana di S. Gregorio, al di là della statale, e a O fino alla Porta IV, comprendente, accanto alle comuni fosse scavate nella terra, anche tombe monumentali, veri e propri heroa. Fra questi, particolarmente notevole, sia per le caratteristiche architettoniche, che per lo stato di conservazione, l'heroon detto tomba di Terone; secondo lo schema di analoghi esempi asiatici e africani, risulta composto di due parti sovrapposte: un podio cubico di m 4.81 di lato, alto m 3.91, con base e cornice modanate e, al di sopra, un tempietto pure a pianta quadrata (m 3.97), alto m 3.73, con pareti piene a finte porte dorìche, colonne angolari ioniche e trabeazione dorica, in parte conservata. È probabile un suo coronamento ad alta cuspide, come negli analoghi esempi africani del sec. III d. Cristo.

Quasi di fronte alla tomba di Terone, attraverso un sentiero si raggiunge il cosiddetto tempio di Esculapio (tempio H), identificato con il tempio citalo da Polibio a proposito dell'assedio romano del 262 a.C.. a otto stadi dalla città verso Mezzogiorno, piccolo tempio in antis con pseudo-portico all'opistodomo, forse del sec. V a. Cristo. Conteneva la famosa statua d'Apollo, di Mirone, rapita dal cartaginese Imilcone, recuperata da Scipione Africano e rubata da Verre. Si noti la profondità del vespaio per difendere il tempio dall'umidità del terreno. Nei pressi degli archi del viadotto della ferrovia all'angolo SO della cinta di Akragas sono gli avanzi del cosiddetto tempio di Vulcano (tempio G), probabilmente della seconda metà del sec. V. Oltre il basamento con quattro gradini e due colonne, ancora ritte, si osservino i resti di un sacello arcaico.

Tornati alla Porta Aurea e al piazzale, si vede a d. il basamento con vespaio del grandissimo altare dei sacrifici. Al di là e il tempio di Giove Olimpico, edificio colossale, uno dei maggiori dell'architettura greca, superato solo dall'Artemision di Efeso e dal Didimeo di Mileto, che sono peraltro di architettura ionica; in Sicilia può confrontarsi per dimensioni col tempio G di Selinunte, di qualche metro più piccolo. Fu cominciato dopo la vittoria di Imera (480-470 a.C.), vi lavorarono i prigionieri cartaginesi ma non fu mai compiuto: gli uomini e i terremoti lo abbatterono.

Presenta delle singolarità costruttive uniche nell'architettura greca. Era pseudo-periptero esastilo, lungo m 112.60, largo 56.30, col peristilio sostituito da un muro, scompartito all'esterno da semi colonne (14 nei lati lunghi, 7 nei brevi), alte m 17 almeno col diametro di m. 4.42, e all'interno da altrettanti pilastri. Internamente misurava m 92 x 20.87 ed era diviso in tre spazi attigui da due file di 12 pilastri quadrati. La cella era a sua volta divisa in tre ambienti successivi; probabilmente era ipetro cioè a cielo aperto nel centro. Ha un'area com­plessiva di quasi 7000 mc e fondazioni profonde oltre 6 m; nella concavità delle scanalature delle colonne trova posto un uomo. Sebbene nessuna colonna sia rimasta ritta, la vista delle rovine è ancora grandiosa. Tutt'intorno al vasto perimetro rettangolare sono macerie, in cui si riconoscono le murature e i conci delle mezze colonne rovesciate. Delle sculture ricordate da Diodoro e che si pensa decorassero i frontoni (gigantomachia a est, presa di Troia a ovest), non restano che frammenti. Una particolarità di questo tempio sono i “telamoni”, colossali figure umane in funzione architettonica, alte m 7.75, la cui collocazione ha rappresentato un problema affrontato da molti studiosi; ma è certo che essi non avevano funzione soltanto decorativa bensì anche statica. Tre dì essi, ancora ritti, rovinarono il 9 dicembre 1401; la loro figura è passata nello stemma della città col motto “Signet Agrigento mirabilis aula Gigantium”. Uno di essi, il cosiddetto “gigante”, fu ricomposto da Raffaele Politi, pittore e archeologo, più di un secolo fa, steso al suolo al centro della cella; e stato ora trasferito al Museo Archeologico, e sul luogo se ne è lasciato un calco. Gli scavi del 1926 e l'esplorazione degli immensi cumuli di rovine del lato S del tempio, hanno condotto al ritrovamento dei resti di altri quattro telamoni, conservati in parte (di tre le teste) nel museo. Altri scavi più recenti nella zona centrale dello stesso lato hanno rimesso in luce un tratto delle strutture della trabeazione, rovesciate non si sa quando, per effetto del terremoto, ma miracolosamente conservate nella loro configurazione originaria tanto che alcuni vorrebbero ricostruirlo.

Proseguendo verso O, parallelamente al ciglio delle antiche mura nello spazio fra il tempio e la linea delle fortificazioni sono venuti in luce, con resti di varie costruzioni, una grande vasca e un lungo portico-fontana, di età ellenistica. A O del tempio di Giove si estende un'ampia area sacra articolata in quattro settori, dei quali il più cospicuo è quello relativo al Santuario delle Divinità Ctonie. All'inizio del sec. V, al santuario si affianca a O un tempio periptero, il cosiddetto tempio dei Dioscuri: quasi completamento distrutto, se ne conserva la parziale ricostruzione (quattro colonne dell'angolo NO) eseguita nel secolo scorso dalla Commissione delle antichità della Sicilia, da cui si deduce che l'edificio dorico fosse periptero, esastilo con 13 colonne sui lati lunghi, lungo, secondo le incisioni sulla roccia, m 38.69 e largo m 16.63. È da pensare che il tempio, gravemente danneggiato alla fine del sec. V quando la città fu presa e saccheggiata dai Cartaginesi, sia stato riparato nelle sue parti alte in nuove forme in epoca ellenistica, come dimostrano le differenze stilistiche ancora riscontrabili. Contemporaneamente fu forse edificato un altro grande tempio a S, il tempio L, di cui si conservano il taglio di fondazione con poche pietre nell'angolo NE, molti rocchi di colonne e, davanti, l'altare dei sacrifici. Il quarto settore, a O del temenos del santuario ctonio, é occupato da un altro santuario, esteso su un terrazzo triangolare limitato sul ciglio da un muro di cinta in parte conservato: tra la fine del sec. VI a.C. e gli inizi del V pare vi sorgessero solo donari e stele, con un edificio rettangolare addossato al margine NE del terrazzo. Successivamente, nella prima meta del sec. IV, l'edificio rettangolare viene ampliato, e viene realizzata una nuova pavimentazione dell'area ad acciottolato. Nella depressione a N si crede potesse essere la piscina, vivaio di pesci della circonferenza di 7 stadi, costruita al tempo di Terone e ricordata da Diodoro, dove finivano gli acquedotti Feaci, cosi detti dall'architetto Feace che li costruì. Fuori dalle mura vicino al santuario, cui si addossavano antiche fornaci (tracce), vennero trovate in vari tempi matrici fittili, ora al Museo Archeologico. Al di là del vallone, in alto, il tempio di Vulcano .

Tornati al tempio di Giove Olimpico e da qui al piazzale di parcheggio s'imbocca la via dei Templi: subito a destra, in posizione elevata e scenografica, si ergono le rovine del tempio di Ercole: otto colonne, di cui quattro col capitello, rialzate nel 1924 e una, nell'angolo NO, mutila, forse l'unica che prima fosse rimasta eretta.

Era periptero esastilo, lungo m 67 e largo 25.31 allo stilobate, con 38 colonne (rispettivamente 8 e 15 per lato, alte m 10, col diametro di 2.08; intercolunnio 2.67) e con una cella forse senza tetto (m 47.56 per 13.90), pronao e opistodomo in antis. Alcuni caratteri arcaici, come l'area allungata e la rastrematura delle colonne, lo fanno ritenere il più antico dei templi agrigentini (fine sec. VI). La cella, nella sua parte posteriore, fu divisa in 3 ambienti dai Romani. È uno dei templi agrigentini di cui è possibile riconoscere l'antica dedicazione, perché corrisponde sicuramente al tempio di Ercole, famoso nell'antichità per la bella statua bronzea del semidio (che Verre tentò di far rapire una notte) e per una pittura di Zeusi, rappresentante Alcmena e Ercole nella culla che strozza i serpenti.

A una trentina di metri a E sono avanzi dell'altare; fra questo e il tempio, una trincea in curva con profonde carreggiate che solcano la roccia, forse una strada tarda. A N del tempio sono state rimesse in luce tracce diverse dell'antico santuario, e un gruppo di tombe cristiane.

Poco a E del tempio di Ercole, al limite occidentale di una spianata che arriva al tempio della Concordia, si estende il giardino della Villa, Aurea, ricco di caratteristica vegetazione. La villa, di proprietà dello Stato, è sede di rappresentanza della direzione della zona archeologica, e ospita anche mostre temporanee. Nel giardino sono due ipogei cristiani e tombe sub-divo della necropoli cristiano-bizantina che occupava (ne restano sparse vestigia) tutta la metà orientale della collina dei Templi, da quello di Giu­none a quello di Ercole.

Di fronte all'angolo NE del giardino, si può accedere dalla strada a un altro gruppo di tombe all'aperto della medesima necropoli, che continua sotto la strada e oltre in un vasto sepolcreto ipogeo (catacombe) noto col nome di grotta, dei Frangipane, e sviluppato su tre rotonde collegate da ambulacri. In comunicazione con le catacombe, verso S, è una necropoli ellenistico-romana extramoenia.

Il resto della spianata è occupato da tombe rettangolari incavate nella roccia, di età cristiano-bizantina, e da resti non facilmente definibili. Al limite orientale si eleva maestoso il cosiddetto tempio della Concordia, tra le opere più perfette dell’architettura dorica, e anche il meglio conservato fra tutti i templi greci, dopo quello di Teseo in Atene, che ricorda moltissimo per l'insieme e il colore (ma il Teseo è di marmo). Si ignora a quale divinità fosse dedicato, probabilmente ai Dioscuri Castore e Polluce; il nome attuale gli fu attribuito da Tommaso Fazello per un'iscrizione latina trovata nelle vicinanze (ora al Museo), ma che non ha col tempio alcun rapporto.

È periptero esastilo, su un basamento a 4 scalini, lungo allo stilobate m 39.44 e largo 16.90, con 34 colonne (rispettivamente 6 e 13 per lato) a 20 scanalature e formate ciascuna da 4 rocchi (altezza col capitello m 6,83; diametro 1.27). Gli intercolumni della facciata vanno restringendosi dal mezzo ai lati; qualche analoga alterazione di rapporti, per ottenere sottili effetti ottici, presentano gli intercolumni dei fianchi, le metope e i triglifi. La cella (m 28.36 per 9,44), sopraelevata d'uno scalino, ha pronao e opistodomo in antis. Il tetto è caduto. Nella parte E della cella, entro lo spessore dei muri, sono scavate due strette scale a chiocciola (ancora praticabili) che conducevano al di sopra del soffitto.

Il tempio fu eretto circa alla meta del sec. V a.C. ed era in origine rivestito di stucco colorato a tinte vivaci. L'eccezionale stato di conservazione si deve alla trasformazione, verso la fine del sec. VI d.C, in chiesa cristiana, dedicata ai Ss. Pietro e Paolo, ma detta volgarmente, dal nome del vescovo agrigentino che la consacrò, di S. Gregorio. Vennero allora chiusi gli intercolumni, abbattuta la parete tra cella e opistodomo, e aperte nei muri della cella per ogni lato 12 arcate ancora esistenti. Il tempio prese la forma d'una basilica a 3 navate e così durò fino al 1748, quando fu sconsacrato e restituito alle forme primitive.

Proseguendo verso E si giunge all'estremità orientale della collina dei Templi, il colle di m 120 che forma l'angolo SE dell'antica città. Sulla sommità sorge imponente, solitario, il cosiddetto tempio di Giunone Lacinia, così chiamato erroneamente per una confusione col tempio di Hera sul promontorio Lacinio a Crotone. Conserva erette 25 colonne, fra le quali tutte quelle del lato N col loro architrave, e parte di quelle del lato S; altre nove colonne sono mutile.

Ha forme uguali a quelle del tempio della Concordia, del quale è di poco più piccolo, È periptero esastilo, lungo m 38.15 e largo 16.90, sopra uno stilobate a 4 scalini, con 34 colonne (6 per 13; altezza m 6.44; diametro 1.29) a 20 scanalature. La cella era in antis (m 28.68 per 9.83). Presenta variazioni nelle misure degli intercolumni e delle metope, come il tempio della Concordia, del quale è probabilmente anteriore di qualche anno. Danneggiato dall'incendio del 406 (ne sono visibili le tracce sui massi arrossati della cella, fu restaurato dai Romani; crollò in parte nel Medioevo per un terremoto. La pietra, ormai priva di stucco, ha subito una forte degradazione. Davanti il fronte Est è un grande altare dei sacrifìci (m 29.80 per 7.52); dall'altro lato, una cisterna antica e un tratto di strada profondamente solcala dalle ruote, dove erano la Porta IV della città.

La Chiesa di S.Nicola e il Museo Archeologico


La massiccia struttura della chiesa di S. Nicola (A), fu eretta dai Cistercensi nel sec. XIII, in robuste forme romanico-gotiche, sulle rovine o nei pressi di antichi edifici (la tradizione pseudo-erudita parla di un «Palazzo dì Fallari», cioè «Falaride», nella zona), della cui architettura pare utilizzi alcuni elementi.

La semplice ma solenne facciata, non terminata nella parte superiore, è racchiusa fra due poderosi piloni e sormontata, da una cornice in forte risalto; il bel portale ogivale ha battenti lignei rozzamente intagliati a rosette romboidali, opera dì Angelo di Blundo (firmata e datata 1531).

L'interno è a una sola navata, con quattro cappelle che si aprono sul lato E; intorno corre un poderoso cornicione aggettante, che nella parete di fondo sormonta una finta loggetta di cinque arcatelle pensili, dove é un ciclo di affreschi con figure di santi del sec. XVI. La volta è ogivale, con costoloni trasversali. Alla parete d. è un'acquasantiera in marmo sostenuta a sbalzo da una mano intagliata, datata 1529; nella 2° cappella è sistemato il celebre, magnifico sarcofago di Fedra, qui collocato provvisoriamente dal Museo Diocesano dopo la frana del 1966. Nella 3° cappella, Crocifisso ligneo detto “Il Signore della nave” (si ricordi l'omonimo dramma di Luigi Pirandello, che ne trasse ispirazione); nella 4° cappella, Madonna, col Bambino, statua marmorea del sec. XVI di scuola gaginesca. A sin. dell'altare, tela del 1593 raffigurante S. Diego e storie della sua vita. In sagrestia, in fondo a destra, una Deposizione, lunetta affrescata da Innocenzo Pascarella (firmata e datata 1575).

La chiesa di S. Nicola è l'ultimo monumento sorto in una zona che è stata oggetto di culto, senza interruzioni, fin dai tempi greci arcaici. Il poggio di S. Nicola occupa una posizione centrale nella zona pianeggiante in cui sorgeva la città. Definito ai suoi piedi da due decumani (a nord e a sud) e due cardini (a est e a ovest), dei quali restano tracce, è sede di un santuario greco-romano, i cui resti più consistenti si trovano nell'area antistante il moderno edificio del Museo Archeologico: a una fase ellenistica del santuario (sec. IV o III a.C.) è legata una cavea assembleare a forma di teatro, in cui è da riconoscere l'”ekklesiasterion”.La costruzione geometrica, a semicerchio dalla curvatura prolungata sino a ottenere (6/8 dell'intera circonferenza, ha un diametro massimo di m 48 circa, e uno minimo di m 15.60. La cavea, che misura mq 1250, poteva contenere 3000 persone su diciannove gradini scavati in parte nella roccia.

Nell'area fra l'ekklesiasterion e il bouleuterion sorge il Museo Archeologico regionale, che incorpora parti dell'antico monastero di S. Nicola ,di cui si conserva, sul muro orientale, una bella bifora medievale con ornati a zig zag. Il Museo, uno dei maggiori musei archeologici della Sicilia, si articola in due settori: uno, più ricco, riguarda Agrigento, l'altro i territori delle province di Agrigento e Caltanissetta, con esclusione di Caltanissetta stessa e di Gela, che sono sede di musei propri.

Nell'ingresso è collocata una planimetria del percorso di visita, con l'indicazione del contenuto di ciascuna sala: Sala 1: pannelli con testi classici relativi ad Agrigento, e uno con la planimetria archeologica della città antica; riproduzioni di stampe dall'opera su Agrigento del teatino G. Pancrazi, sec. XVIII, Sala 2: materiale preistorico, del II e I millennio a.C., caratteristico dell'ambiente in cui sorse poi la greca Akragas; materiale di età greca arcaica, proveniente da Gela, Licata e Palma di Montechiaro, qui esposto per indicare il cammino percorso tra il sec. VII e il VI a.C. dai Greci di Gela per arrivare alla fondazione di Akragas nel 560 a.C.; reperti dalla necropoli agrigentina di Montelusa (località San Leone), coeva alla fondazione. Sala 3: contiene la raccolta vascolare, comprendente le vecchie collezioni del Museo Civico e dei baroni Giudice, nonché alcuni vasi di più recente rinvenimento (l'esposizione segue un percorso serpeggiante, in rigoroso ordine cronologico, dai vasi attici a figure nere e a figure rosse del sec. VI-V a quelli greco-italioti dei sec. V-III a.C.). Da notare le anfore a figure nera con Athena su quadriga (cerchia del Pittore di Edimburgo, fine sec. VI a.C.) e con Apollo, Artemide e Latona (Pittore di Dikaios, 520, 500); i crateri a figure rosse con Deposizione di guerriero (Pittore di Pezzino, ca. 500) e con palestriti e pedagogo (Pittore di Harrow, ca. 400); i crateri a figure rosse, a due registri, con Corteo dionisiaco (Pittore di Lugano, ca. 400) e con Sacrificio ad Apollo (gruppo di Polignoto, 440-430); un cratere a fondo bianco, con Perseo e Andromeda (Pittore delle plaiole, ca. 430); un magnifico grande piatto apulo (sec. IV). In fondo alla sala, a sinistra, figura marmorea di Guerriero con scudo (sec. V a.C.). unico pezzo rimasto della grandiosa decorazione scultorea del tempio di Giove Olimpico ricordato da Diodoro, Sala 4: scultura architettonica illustrata da interessanti esemplari di gronde in pietra, a teste leonine, da vari templi. Sala 5: dedicata ai santuari agrigentini di epoca, greca classica ed ellenistica: in numerose vetrine delle gallerie S e N sono esposti gli ex voto in essi rinvenuti. Da notare, statuette fittili delle divinità ctonie e di offerenti; maschera di negretto; ricca collezione di matrici; bella testa di Athena con l'elmo (sec. V a.C.); lucerne e «keruoi»; capolavori della plastica agrigentina del sec. V-IV a.C., fra cui una superba testa di «kore» e alcuni busti modiati; bordi di bracieri con decorazione figurata a stampo; rivestimenti architettonici in ceramica dipinta; testa di «kouros» arcaico (sec. VI); magnifica testa marmorea femminile (sec. V) e altra virile (sec. IV). Nel fondo della sala, sulla parete ovest, grande diapositiva della Collina dei Templi, Si scende alla Sala 6, il grande ambiente alto come due piani aperto al centro della sala dei santuari e dedicato al tempio di Giove Olimpico: dalla parete est domina, in posizione eretta, il colossale telamone superstite (alto m 7.75); entro nicchie a N, tre teste di altri telamoni; in mezzo, plastico del tempio. Allo stesso livello della sala del tempio di Giove, a sud, è la Sala 7, dedicata all'antico abitato: veduta aerea del

quartiere ellenistico-romano: stratigrafia di un settore dello scavo; vetrine contenenti svariati materiali in seriazione cronologica dal sec. VI a.C. al sec. VI d.C., tre « emblemata » musivi, fra cui quello assai noto con gazzella alla fonte (sec. I d.C.); frammenti di decorazione parietale dipinta del 2° stile. A nord si susseguono la Sala 8, dedicata all'epigrafia, e la Sala 9, col medagliere; la ricca collezione numismatica qui custodita (e a cui si accede solo con uno speciale permesso), comprende monete greche, romane, bizantine e arabo-normanne, in argento, bronzo e oro, da ripostigli o da scavi, Risaliti al livello superiore si raggiunge dopo la galleria nord dedicata ai santuari la Sala 10, della scultura greco-romana: statua marmorea di Efebo, originale greco di forme severe appartenente all'arcaismo maturo (ca. 470 a.C.); piccola graziosa Afrodite al bagno, mutila, e torso virile, entrambi ellenistici; inoltre, paliotto o frammento di sepolcro o pluteo paleocristiano con leoni che assaltano gazzelle; testine marmoree, busti. Segue un lungo corridoio di transito e sosta, con bella veduta panoramica all'esterno, dove sono due statue, romane di togati, fra il verde. Sala 11: materiale, prevalentemente vasi, ma anche oggetti di bronzo, dalle necropoli agrigentine dei vari templi. Nella sala sono anche sei sarcofagi, fra cui uno arcaico a vasca, in pietra tenera (sec. VI a.C.), uno di marmo greco con motivi di triglifi (sec. V) e uno di età romana, detto della “lotta dei galli”. Sale 12 e 13: dedicate alla preistoria del territorio agrigentino, in un primo razionale tentativo di organizzazione scientifica dei materiali rinvenuti in recenti scavi, dal Neolitico (IV-III millennio a.C.) fino al momento della colonizzazione greca della Sicilia: le principali località illustrate sono Sciacca, Palma di Montechiaro, Montallegro, Milena, Monte Polizzello, Favara, Sant'Angelo Muxaro (da cui provengono la patera e gli anelli sigillo d'oro dalla tomba VI). Sala 14: sezione topografica della provincia di Agrigento (da sviluppare). Nell'ordine, Eraclea Minoa, Ribera, Sambuca, eccetera. Sala 15: mostra fotografica di antichità di Gela: a testimoniare l'eccezionale ricchezza archeologica di questa zona, è esposto, in una vetrina al centro della sala, un solo magnifico cratere a volute con rappresentazione a figure rosse di Amazzonomachia (sec. V a.C). Sala 16: pannelli vari e materiale da Ravanusa, Favara, Canicattì, Licata. Sala 17: sezione topografica della provincia di Caltanissetta, attualmente limitata ai materiali (vasi, terracotte, bronzi, ecc.) che si sono trovati in scavi nei centri sicano-greci di Vassallaggi, presso San Cataldo, e di Raffe, nel territorio di Milena.

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