Il MUSEO
EBRAICO DI BERLINO
Dal 9
settembre 2001, data della sua apertura, il museo rappresenta la
sintesi architettonica dell’identità culturale di un popolo, si
pone anche come tangibile espressione della presenza e del ruolo
degli ebrei in Germania, ma oltre tutto questo è un invito alla
riconciliazione – fisica e spirituale – della città di Berlino
con la Shoah.
“Architecture
is a language” è questo il concept
che nutre l’architettura di Daniel Libeskind e che viene
concretizzato attraverso una delle sue più importanti opere: il
Jüdisches Museum.
Nato a
pochi chilometri dalla capitale tedesca (a Lodz, in Polonia) e
appartenente a una famiglia decimata dallo sterminio, Libeskind
presentò il suo progetto al Senato di Berlino nel 1988, un anno
prima della caduta del muro. Alla base della sua proposta era il
desiderio di affrontare, in un’unica struttura, temi ampi e
complessi come la storia degli ebrei tedeschi e il vuoto lasciato
dalla loro assenza a Berlino, per arrivare infine a offrire un
simbolo di speranza per un nuovo corso storico, per Berlino e per
l’Europa.
Originariamente,
il progetto nasce per ampliare il preesistente edificio storico del
Museo di Berlino, inserendosi nel quartiere barocco, il
Friedrichstadt sud, distrutto dalla guerra.
L’originaria
idea di ampliamento e di integrazione al Museo preesistente viene
stravolta da un progetto che riassume la storia degli ebrei in
Germania.
L’architetto
ha definito il suo progetto “between the lines” perché è
proprio tra una serie di intersezioni di linee che dà vita a un
corpo edilizio scultoreo, dal profilo drammaticamente spezzato, che,
visto dall’alto, riprende la forma geometrica di una saetta; da qui
il soprannome blitz, che in tedesco significa fulmine.
Un
taglio, una ferita che scolpisce, graffia il disegno urbano della
città; un segno forte percepibile dall’osservatore esclusivamente
attraverso una vista aerea, che si materializza anche tramite il
rivestimento esterno in zinco, anch’esso “squarciato” da
aperture oblique di diverse dimensioni.
La
luce filtra attraverso fessure asimmetriche che sembrano pugnalate
nell’altrimenti liscia facciata del monolitico edificio. In realtà
le finestre-fessure seguono uno schema preciso: ricalcano la
posizione – identificata su una mappa della Berlino pre-bellica –
delle case dove abitavano eminenti cittadini ebrei e tedeschi. Il
museo è un volume che si chiude in se stesso, privo di qualsiasi
contatto con la città; non ha un accesso diretto dall’esterno e
per poter accedere bisogna passare dal vecchio edificio.
L'entrata
al museo è stata intenzionalmente resa difficile e lunga, per far
rivivere al visitatore il difficile cammino della storia ebraica.
L’ingresso
è costituito da uno squarcio su una parete bianca e conduce a degli
spazi caratterizzati da un gioco di muri bianchi, neri, spigolosi,
inclinati che, grazie anche alla luce fredda emessa dai neon,
accentuano la sensazione di tensione, di angoscia e di dolore.
Una
rampa di scale che collega i due edifici conduce a un sotterraneo
scomposto in tre assi, una sorta di tridente, che simboleggia i
diversi destini del popolo ebraico: l’asse dell’Olocausto
confluisce a una torre denominata la Torre dell'Olocausto; l’asse
dell’Esilio conduce a un giardino quadrato esterno, denominato
Giardino dell’Esilio; l’asse della continuità, collegato agli
altri due corridoi, rappresenta il permanere degli ebrei in Germania
nonostante l’Olocausto e l’Esilio.
Il
percorso che conduce alla torre dell'Olocausto, parte da un muro
nero. Il nero diventa il simbolo della tragica assenza di razionalità
e amore, il simbolo del “sonno della ragione”.
Al
termine della strada ci si trova di fronte a un portone imponente, ad
li là del quale si apre la torre: una struttura completamente vuota,
buia, circondata da alte pareti in cemento. Non c’è nessuna
finestra da cui guardare, ma soltanto una stretta feritoia posta in
alto, dalla quale riesce a filtrare la luce diurna.
È
impossibile vedere fuori e capire dove si è, così come accadeva
agli Ebrei nei campi di concentramento. L’aria entra attraverso
piccoli fori praticati su una parete, che richiamano quelli
attraverso cui veniva immesso il gas nelle camere di morte.
Simbolica
diventa anche una scala metallica a circa due metri e mezzo dal
pavimento; mezzo di salvezza e di speranza che ha nutrito gli animi
degli ebrei, ma qui è irraggiungibile, così come la salvezza di
molti di essi.
Durante
il percorso a un tratto la materia si “smaterializza”, il pieno
viene svuotato per condurre il visitatore a meditare; sono pause di
raccoglimento e silenzio.
Il
vuoto, tema dominante del museo, assume un grande significato:
l’impossibilità di colmare secoli di sofferenze e di dolore. Ma a
tratti questo silenzio viene interrotto dal suono freddo del metallo:
sono i visitatori che addentrandosi nel grande vuoto calpestano una
fitta e assordante distesa di piccole facce di ferro dalla bocca
sbarrata in un urlo.
Shalechet,
ovvero le foglie morte, dell'artista israeliano Menashe Kadishman;
un'opera iniziata nel 1997 - e dichiaratamente tuttora incompiuta. La
moltitudine di faccine di ferro semi-arrugginito, tonde e piatte,
sofferenti, vengono inevitabilmente calpestate dal visitatore,
rievocando così inevitabilmente il ricordo delle vittime della
Shoah.
Proseguendo
si incontra il secondo asse che conduce al Giardino dell’Esilio;
attraverso una porta vetrata si entra in contatto apparente con
l’esterno. Un alto muro di cemento avvolge la superficie quadrata
del giardino in modo tale che dall’esterno non si possa vedere
nulla.
Dentro
il giardino, quarantanove pilastri in cemento armato svettano in
cielo, recando in sommità degli alberi, definendo una sorta di
labirinto che reca anch’esso la sensazione di disagio. Il numero
dei pilastri serve a ricordare la data di nascita dello Stato di
Israele (1948) e la colonna in più, centrale, rappresenta la città
di Berlino. Gli alberi, gli olivagni, simbolo di pace, collocati in
contenitori stretti (che ne rendono difficile la crescita)
rappresentano invece la forza e il coraggio degli ebrei esiliati.
L’uso
di un piano di calpestio inclinato di sei gradi è stata una tecnica
voluta da Libeskind affinché il visitatore provasse la stessa
sensazione di straniamento e disagio che hanno provato gli ebrei:
camminando tra i pilastri si prova, infatti, una straniante mancanza
di equilibrio. Infine,
la terza strada è rappresentata da una lunga scala che, col suo moto
ascensionale, accompagna il visitatore alle sale espositive disposte
su tre piani. Questo è un percorso illuminato attraverso lucernari e
finestre laterali.
La sua
linearità simboleggia la continuità della storia e la
consapevolezza del fatto che la vita va avanti, che esiste una
speranza di salvezza. Ma, percorrendo la scala, lo sguardo viene
drammaticamente “attaccato” da intrecci di travi strutturali
inclinate che, come schegge, penetrano nei muri che camminano
parallelamente alla scala rendendo lo spazio, ancora una volta, teso
ed emozionante. Loro funzione è inoltre quella di ricordare
l’imprevedibilità della storia.
Il
Museo Ebraico di Berlino testimonia dunque la forza espressiva di
un’architettura capace di essere “compresa” senza bisogno di
intermediazioni.
E' possibile vedere interessanti video sul museo a questi indirizzi
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