Agrigento
: la storia
Il
territorio agrigentino è stato abitato fin dalla preistoria, come dimostrano le
testimonianze riferibili all'età del Rame e del Bronzo, individuate nelle immediate vicinanze della città attuale, Alla
fine del sec. VII a.C. risalgono i primi segni di influenza greca (necropoli
arcaica di Montelusa in prossimità della
costa, a O dell'odierna San Leone), che divengono sempre più consistenti
agli inizi del sec. VI a.C.. La fondazione di Akragas
(Agrigentum dei Romani) per opera di coloni rodii e gelesi condotti
dagli ecisti Aristonoo e Pistilo, segna un'importante tappa nel processo di espansione verso l'interno e lungo la
fascia costiera della colonia-madre Gela. Tale fondazione va collocata
intorno al 580 a.C., e pone Agrigento
fra le ultime colonie greche fondate in Sicilia. La città, poco distante dal
mare e protetta, a N, dalle colline dell'acropoli, cresce rapidamente per
estensione e per importanza politica; durante il governo del tiranno Falaride (570-555 a.C.) si consolida il primo
nucleo urbano, e probabilmente nello stesso periodo viene costruita la
cinta delle mura (di cui rimangono lunghi
tratti), concepita come potenziamento delle difese naturali del sito col
rafforzamento dei punti più deboli. A questa fase sono da riferire alcuni edifici di culto, posti nell'angolo SO della
collina dei Templi (parte del Santuario
delle divinità ctonie e altri piccoli sacelli). La politica
espansionistica, avviata già a partire dalla metà del sec. VI a.C., raggiunse i
massimi risultati durante il governo del tiranno Terone (488-473 a.C.) che, con
la vittoria di Imera sui Cartaginesi (480 a.C.), estese il suo controllo
militare sul vastissimo territorio compreso tra la costa meridionale e la costa
tirrenica, e delimitato a est dal F. Salso (o Imera Meridionale) e a
ovest dal F. Plàtani (l'antico Halykos). La vittoria di Imera accresce lo sviluppo economico della città e
promuove una fioritura di manifestazioni
artistiche, che trova riscontro nella costruzione quasi contemporanea
dei magnifici templi sul limite meridionale della collina. Gli scavi non hanno
restituito precise testimonianze
dell'organizzazione dell'impianto urbano di questo periodo: all'interno del quadrilatero delimitato dal naturale
andamento del terreno e definito dalle opere di fortificazione, la città
dovette estendersi ad occupare l'area
dell'attuale Valle dei Templi, secondo lo schema regolare che,
probabilmente, costituì la matrice della città ellenistico-romana.
Nella seconda metà del sec. V a.C. ad Agrigento si instaura un regime democratico e la città gode di una relativa
tranquillità, fino a che, nel 406
a.C., viene assediata, saccheggiata e incendiata dai Cartaginesi, impegnati
nella conquista dei territori della Sicilia occidentale. Dopo un periodo di abbandono, risorse con Timoleonte,
vincitore dei Cartaginesi (340 a.C.), considerato suo secondo fondatore:
la città venne riedificata nello stesso sito, secondo un nuovo piano
urbanistico, in parte ancora leggibile negli scavi del cosiddetto
“quartiere ellenistico-romano”. Per la sua posizione all'interno del
territorio controllato da Cartagine, Agrigento
stabilì con questa patti di alleanza; fu conquistata dai Romani una
prima volta nel 262 a.C. e, definitivamente, nel 210 a. C. Negli ultimi
secoli della Repubblica e nei primi dell'Impero, la città, unico emporio superstite sulla costa meridionale,
godette ancora di un relativo benessere, dovuto al rifiorire dell'agricoltura e
del commercio. La decadenza di Roma e
l'avvento del Cristianesimo provocano una vistosa contrazione
demografica e un impoverimento della città; testimonianze di questo periodo e
del successivo bizantino sono situate nell'area della vasta necropoli a sud della collina dei Templi. Intorno
al sec. VII d.C. vengono progressivamente abbandonati i
quartieri della città antica, mentre i pochi abitanti rimasti si arroccano sul
lato della collina di Girgenti. Occupata
dai Musulmani nell'828, la città si popolò rapidamente, crebbe per
importanza economica e divenne la capitale dei Berberi, spesso in lotta con i gruppi etnici arabi anch'essi impegnati
nell'occupazione dell'isola. Tracce della presenza di queste popolazioni
di lingua e cultura araba rimangono in
alcuni toponimi (il sobborgo del Rabato, la porta Bibinia, la via Bac
Bac), oltre che nel nome Girgenti (arabo Gergent) che la città conservò fino al
1927, nonostante le vistose trasformazioni dell'impianto urbano: ancora oggi, inoltre, il tessuto viario della
città è fortemente caratterizzalo da
elementi urbanistici di tradizione islamica (vicoli e cortili). Dopo la
conquista normanna del 1087 e la ricostituzione della sede vescovile (dotata di un vastissimo territorio di
pertinenza), la città mantenne la sua importanza economica, basata soprattutto
sulle relazioni commerciali con il
Nord Africa, e divenne centro di raccolta dei Musulmani ancora presenti in Sicilia, fino alla loro espulsione
(1245) operata da Federico II di Svevia.
Nel sec.
XIV nobili famiglie, quali i Chiaramonte e i Montaperto, imposero la loro
supremazia sulla città, usurpandone la demanialità: ai Chiaramente si deve la costruzione della cinta muraria, che
inglobava, oltre alla Cittadella detta anche “Terravecchia», i borghi di S.
Francesco, S. Pietro e S. Michele; le coeve fondazioni dei complessi
conventuali di S. Francesco (a E) e di S.
Domenico (nella prima sede sito a O nel sobborgo del Rabato, fuori le mura) segnano i limiti dell'espansione
urbana. Durante i secoli seguenti (XV-XVI-XVII) la città subisce un
progressivo spopolamento; a partire dal sec. XV questa tendenza si aggrava in seguito alla politica di
ripopolamento del feudo, avviata da
alcuni nobili feudatari agrigentini con la fondazione di numerosi centri
agricoli. L'attività costruttiva nel centro urbano, che si contrae sempre più all'interno delle mura, è limitata ad
alcuni palazzi baronali e ad interventi di carattere religioso. Il sec.
XVIII segna per la città una ripresa sociale ed economica. Nel XIX e XX sec. la
città va progressivamente spopolandosi causa l’emigrazione. A partire dagli
anni ‘60 del ‘900 una rapida e caotica urbanizzazione, spesso abusiva, ha
trasformato e gravemente compromesso il paesaggio (frana del 1966).
Negli
ultimi anni il F.A.I. si è adoperato per la riqualificazione del parco della
Colimbetra, la “piscina” dell’Akragas greca.
La città antica
Occupava
un'area di circa 1817 ettari, già dai primi tempi cinta da una poderosa
cerchia muraria turrita, in una zona compresa tra il fiume Akragas (oggi S.
Biagio) a est e il suo affluente Hypsas (oggi Drago) a O; presentava
all'interno una parte rocciosa adatta alla difesa e costituita dalla collina occidentale (m 326) e dalla
rupe Atenea (m 351).
Gli
edifici di maggior rilievo, i templi, sono tutti in stile dorico e sono stati costruiti in
pietra arenaria conchiglifera di colore giallo (che al fuoco si arrossa,
conservando così tracce degli incendi).
Seguendo
la via dei Templi si ha, sulla sinistra, un gruppo di consistenti resti di
case, comunemente intesi come “quartiere ellenistico-romano”.
Su
un'area di oltre 10000 mq si estende un imponente complesso urbano, di
tracciato regolarissimo, che sembrerebbe sorto, su un altro più antico dì
simile impianto, nella seconda metà del sec. IV a.C. (all'epoca cioè della
seconda fioritura della città, con Timoleonte), e sarebbe durato, attraverso
varie vicissitudini, fin verso il sec. IV-V d. C. Il sistema stradale è quello
detto “ippodameo” (da Ippodamo di Mileto, urbanista greco del sec. V a.C.
teorizzatore del sistema ortogonale), che ebbe in Agrigento un impiego fra i
più grandiosi di tutto il mondo antico. Nell'area scavata si contano quattro
cardini N-S (Stenopoi) paralleli ed equidistanti, che sboccavano tutti a N su
un decumano (plateia), sopra il quale ora passa un tratto della statale. Le
insule definite dalla griglia stradale sono occupate da abitazioni di varia
forma, sia a peristilio ellenistico che ad atrio di tipo italico. Molte case
(particolarmente interessanti la casa del peristilio, la casa delle svastiche,
la casa della gazzella, la casa del maestro astrattista) conservano pavimenti
musivi, a intrecci geometrici o con rappresentazioni fitomorfe e zoomorfe,
databili al sec. I-II d. C.. Accurata la rete
degli
scoli delle acque piovane e dei liquami. Sul cardine II, a destra, resti di due
tabernae.
Nei
pressi si trova la chiesa di S. Nicola, con il complesso delle strutture del Museo
regionale e della Soprintendenza Archeologica, realizzato nel 1967. Lasciato
il Museo Archeologico, verso S si raggiunge il piazzale di parcheggio
realizzato sulla zona dell'agorà. A sin.
(E) si stacca la via dei Templi, che correndo lungo la cresta della collina dei Templi, tocca i maggiori edifici
sacri (templi di Ercole, della
Concordia, di Giunone Lacinia); a destra, oltre il tempio di Giove, si
estende una vasta area sacra. Procedendo invece brevemente verso S si
attraversano i pochi resti della Porta IV o Aurea (così detta con denominazione bizantina), la principale di Akragas, che conduceva
all'antico emporio e per la quale entrarono i Romani nel 210 a. C. Appena fuori
dalla porta, si estende, a sinistra, la necropoli romana detta Giambertoni
(I-III sec. d. C.).
Si tratta di un vasto cimitero esteso sulle pendici della
collina fuori dalle antiche mura, che continua a S
nei territori della piana di S. Gregorio, al di là della statale, e a O
fino alla Porta IV, comprendente, accanto alle comuni fosse scavate nella terra, anche tombe monumentali, veri e propri heroa.
Fra questi, particolarmente notevole, sia per le caratteristiche
architettoniche, che per lo stato di conservazione, l'heroon detto tomba
di Terone; secondo lo schema di analoghi esempi asiatici e africani,
risulta composto di due parti sovrapposte: un podio cubico di m 4.81 di lato,
alto m 3.91, con base e cornice modanate e, al di sopra, un tempietto pure a pianta quadrata (m 3.97), alto m 3.73, con
pareti piene a finte porte dorìche, colonne angolari ioniche e trabeazione
dorica, in parte conservata. È
probabile un suo coronamento ad alta cuspide, come negli analoghi esempi
africani del sec. III d. Cristo.
Quasi di fronte alla tomba di Terone, attraverso un sentiero
si raggiunge il cosiddetto tempio di Esculapio
(tempio H), identificato con il tempio citalo da
Polibio a proposito dell'assedio romano del 262
a.C.. a otto stadi dalla città verso Mezzogiorno, piccolo tempio in antis con pseudo-portico
all'opistodomo, forse del sec. V a. Cristo. Conteneva
la famosa statua d'Apollo, di Mirone, rapita dal cartaginese Imilcone,
recuperata da Scipione Africano e rubata da Verre. Si noti la profondità del
vespaio per difendere il tempio dall'umidità del terreno. Nei pressi degli
archi del viadotto della ferrovia
all'angolo SO della cinta di Akragas sono gli avanzi del cosiddetto tempio
di Vulcano (tempio G), probabilmente della seconda metà del sec. V. Oltre il basamento con
quattro gradini e due colonne, ancora ritte, si osservino i resti di un
sacello arcaico.
Tornati
alla Porta Aurea e al piazzale, si vede a d. il basamento con vespaio del grandissimo altare dei sacrifici. Al
di là e il tempio di Giove Olimpico,
edificio colossale, uno dei maggiori dell'architettura greca, superato solo dall'Artemision di Efeso e dal Didimeo di Mileto, che sono peraltro di architettura
ionica; in Sicilia può confrontarsi per dimensioni col tempio G di
Selinunte, di qualche metro più piccolo. Fu
cominciato dopo la vittoria di Imera (480-470 a.C.), vi lavorarono i
prigionieri cartaginesi ma non fu mai
compiuto: gli uomini e i terremoti lo abbatterono.
Presenta
delle singolarità costruttive uniche nell'architettura greca. Era
pseudo-periptero esastilo, lungo m 112.60, largo 56.30, col peristilio
sostituito da un muro, scompartito all'esterno da semi colonne (14 nei lati lunghi, 7 nei brevi), alte m 17 almeno col diametro
di m. 4.42, e all'interno da altrettanti pilastri. Internamente misurava
m 92 x 20.87 ed era diviso in tre spazi attigui da due file di 12 pilastri
quadrati. La cella era a sua volta divisa
in tre ambienti successivi; probabilmente era ipetro cioè a cielo aperto nel
centro. Ha un'area complessiva di quasi 7000 mc e fondazioni profonde
oltre 6 m; nella concavità delle scanalature
delle colonne trova posto un uomo. Sebbene nessuna colonna sia rimasta
ritta, la vista delle rovine è ancora grandiosa.
Tutt'intorno al vasto perimetro rettangolare sono macerie, in cui si
riconoscono le murature e i conci delle mezze colonne rovesciate. Delle
sculture ricordate da Diodoro e che si pensa
decorassero i frontoni (gigantomachia a est, presa di Troia a ovest), non
restano che frammenti. Una particolarità di questo tempio sono i
“telamoni”, colossali figure umane in funzione architettonica, alte m 7.75, la cui collocazione ha rappresentato un
problema affrontato da molti studiosi; ma è certo che essi non avevano
funzione soltanto decorativa bensì anche
statica. Tre dì essi, ancora ritti, rovinarono il 9 dicembre 1401; la
loro figura è passata nello stemma della città col motto “Signet Agrigento
mirabilis aula Gigantium”. Uno di essi, il cosiddetto “gigante”, fu ricomposto da Raffaele Politi, pittore e archeologo, più
di un secolo fa, steso al suolo al centro della cella; e stato ora
trasferito al Museo Archeologico, e sul
luogo se ne è lasciato un calco. Gli scavi del 1926 e l'esplorazione degli immensi cumuli di rovine del
lato S del tempio, hanno condotto al ritrovamento dei resti di altri
quattro telamoni, conservati in parte (di
tre le teste) nel museo. Altri scavi più recenti nella zona centrale dello stesso lato hanno rimesso in luce un tratto
delle strutture della trabeazione,
rovesciate non si sa quando, per effetto del terremoto, ma miracolosamente
conservate nella loro configurazione originaria tanto che alcuni vorrebbero ricostruirlo.
Proseguendo verso O, parallelamente al ciglio delle
antiche mura nello spazio fra il tempio e la linea delle fortificazioni sono
venuti in luce, con resti di varie costruzioni, una grande vasca e un lungo portico-fontana,
di età ellenistica. A O del tempio di Giove
si estende un'ampia area sacra articolata in quattro settori, dei quali il più cospicuo è quello relativo
al Santuario delle Divinità Ctonie. All'inizio del sec. V, al
santuario si affianca a O un tempio periptero, il cosiddetto tempio dei
Dioscuri: quasi completamento distrutto, se ne conserva la parziale
ricostruzione (quattro colonne dell'angolo
NO) eseguita nel secolo scorso dalla Commissione delle antichità della Sicilia,
da cui si deduce che l'edificio dorico fosse periptero, esastilo con 13 colonne sui lati lunghi,
lungo, secondo le incisioni sulla roccia, m 38.69 e largo m 16.63. È da
pensare che il tempio, gravemente danneggiato alla fine del sec. V quando la
città fu presa e saccheggiata dai Cartaginesi, sia stato riparato nelle sue
parti alte in nuove forme in epoca ellenistica, come dimostrano le differenze
stilistiche ancora riscontrabili. Contemporaneamente
fu forse edificato un altro grande tempio a S, il tempio L, di cui si conservano il taglio di fondazione con poche pietre nell'angolo
NE, molti rocchi di colonne e, davanti, l'altare dei sacrifici. Il quarto settore, a O del temenos del santuario
ctonio, é occupato da un altro santuario, esteso su un terrazzo
triangolare limitato sul ciglio da un muro
di cinta in parte conservato: tra la fine del sec. VI a.C. e gli inizi del V pare
vi sorgessero solo donari e stele, con un edificio rettangolare addossato al
margine NE del terrazzo. Successivamente, nella prima meta del sec. IV, l'edificio rettangolare viene ampliato,
e viene realizzata una nuova pavimentazione dell'area ad acciottolato.
Nella depressione a N si crede potesse
essere la piscina, vivaio di pesci della circonferenza di 7 stadi, costruita al
tempo di Terone e ricordata da Diodoro, dove finivano gli acquedotti
Feaci, cosi detti dall'architetto Feace che li costruì. Fuori dalle mura vicino
al santuario, cui si addossavano antiche fornaci (tracce), vennero trovate in vari tempi matrici fittili, ora al Museo
Archeologico. Al di là del vallone,
in alto, il tempio di Vulcano .
Tornati al tempio di Giove Olimpico e da qui al piazzale
di parcheggio s'imbocca la via dei Templi: subito a
destra, in posizione elevata e scenografica, si ergono le rovine del tempio
di Ercole: otto colonne, di cui quattro col capitello, rialzate nel 1924 e una, nell'angolo NO, mutila,
forse l'unica che prima fosse
rimasta eretta.
Era periptero esastilo, lungo m 67 e largo 25.31 allo
stilobate, con 38 colonne (rispettivamente 8 e 15
per lato, alte m 10, col diametro di 2.08; intercolunnio 2.67) e con
una cella forse senza tetto (m 47.56 per 13.90), pronao e opistodomo in antis. Alcuni caratteri arcaici, come l'area
allungata e la rastrematura delle colonne, lo fanno ritenere il più
antico dei templi agrigentini (fine sec.
VI). La cella, nella sua parte posteriore, fu divisa in 3 ambienti dai
Romani. È uno dei templi agrigentini di cui è possibile riconoscere l'antica
dedicazione, perché corrisponde sicuramente al tempio di Ercole, famoso
nell'antichità per la bella statua bronzea del semidio (che Verre tentò di far
rapire una notte) e per una pittura di Zeusi, rappresentante Alcmena e Ercole
nella culla che strozza i serpenti.
A una trentina di metri a E sono avanzi dell'altare; fra
questo e il tempio, una trincea in curva con
profonde carreggiate che solcano la roccia, forse una strada tarda. A N del
tempio sono state rimesse in luce tracce diverse dell'antico santuario, e un
gruppo di tombe cristiane.
Poco a E del tempio di Ercole, al limite occidentale di
una spianata che arriva al tempio della Concordia, si estende il
giardino della Villa, Aurea, ricco di caratteristica vegetazione. La
villa, di proprietà dello Stato, è sede di rappresentanza della direzione della zona archeologica, e ospita anche mostre
temporanee. Nel giardino sono due
ipogei cristiani e tombe sub-divo della necropoli
cristiano-bizantina che occupava (ne restano sparse vestigia) tutta la metà orientale della collina dei Templi,
da quello di Giunone a quello di Ercole.
Di fronte all'angolo NE del
giardino, si può accedere dalla strada a un altro
gruppo di tombe all'aperto della medesima necropoli, che continua sotto la strada e oltre in un vasto sepolcreto
ipogeo (catacombe) noto col nome di grotta,
dei Frangipane, e sviluppato su tre rotonde collegate da ambulacri. In comunicazione con le catacombe, verso
S, è una necropoli ellenistico-romana extramoenia.
Il resto della spianata è
occupato da tombe rettangolari incavate nella roccia, di età
cristiano-bizantina, e da resti non facilmente definibili. Al limite orientale si eleva maestoso il cosiddetto tempio della Concordia, tra le opere più perfette dell’architettura
dorica, e anche il meglio conservato fra tutti i templi greci, dopo quello di
Teseo in Atene, che ricorda moltissimo per l'insieme e il colore (ma il Teseo è
di marmo). Si ignora a quale divinità fosse dedicato, probabilmente ai Dioscuri
Castore e Polluce; il nome attuale gli fu attribuito da Tommaso Fazello per
un'iscrizione latina trovata nelle vicinanze (ora al Museo), ma che non ha col tempio alcun rapporto.
È
periptero esastilo, su un basamento a 4 scalini, lungo allo stilobate m 39.44 e largo 16.90, con 34 colonne
(rispettivamente 6 e 13 per lato) a 20 scanalature e formate ciascuna da 4
rocchi (altezza col capitello m 6,83; diametro 1.27). Gli intercolumni della facciata vanno restringendosi dal
mezzo ai lati; qualche analoga alterazione di rapporti, per ottenere
sottili effetti ottici, presentano gli intercolumni dei fianchi, le metope e i
triglifi. La cella (m 28.36 per 9,44), sopraelevata
d'uno scalino, ha pronao e opistodomo in antis. Il tetto è caduto. Nella parte E della cella, entro lo
spessore dei muri, sono scavate due
strette scale a chiocciola (ancora praticabili) che conducevano al di sopra del
soffitto.
Il tempio fu eretto circa alla meta del sec. V a.C. ed era
in origine rivestito di stucco colorato a tinte
vivaci. L'eccezionale stato di conservazione si deve alla trasformazione, verso
la fine del sec. VI d.C, in chiesa cristiana, dedicata ai Ss. Pietro e Paolo,
ma detta volgarmente, dal nome del vescovo agrigentino che la consacrò,
di S. Gregorio. Vennero allora chiusi gli intercolumni, abbattuta la
parete tra cella e opistodomo, e aperte nei muri
della cella per ogni lato 12 arcate ancora esistenti. Il tempio prese la forma
d'una basilica a 3 navate e così durò fino al 1748, quando fu sconsacrato
e restituito alle forme primitive.
Proseguendo
verso E si giunge all'estremità orientale della collina dei Templi, il colle di
m 120 che forma l'angolo SE dell'antica città. Sulla sommità sorge imponente, solitario, il cosiddetto tempio
di Giunone Lacinia, così chiamato erroneamente per una confusione col tempio di Hera
sul promontorio Lacinio a Crotone. Conserva erette 25 colonne, fra le quali
tutte quelle del lato N col loro architrave, e parte di quelle del lato S;
altre nove colonne sono mutile.
Ha forme uguali a quelle del tempio della Concordia, del quale è di poco
più piccolo, È periptero esastilo,
lungo m 38.15 e largo 16.90, sopra uno stilobate a 4 scalini, con 34 colonne (6
per 13; altezza m 6.44; diametro 1.29) a 20 scanalature. La cella era in
antis (m 28.68 per 9.83). Presenta variazioni nelle misure degli
intercolumni e delle metope, come il tempio della Concordia, del quale è probabilmente anteriore di
qualche anno. Danneggiato dall'incendio del 406 (ne sono visibili le
tracce sui massi arrossati della cella, fu
restaurato dai Romani; crollò in parte nel Medioevo per un terremoto. La pietra, ormai priva di stucco, ha
subito una forte degradazione. Davanti il fronte Est è un grande altare dei sacrifìci (m 29.80 per
7.52); dall'altro lato, una cisterna antica e un tratto di strada
profondamente solcala dalle ruote, dove
erano la Porta IV della città.
La Chiesa di S.Nicola e il Museo Archeologico
La
massiccia struttura della chiesa di S. Nicola (A), fu eretta dai
Cistercensi nel sec. XIII, in robuste forme romanico-gotiche, sulle rovine o
nei pressi di antichi edifici (la tradizione pseudo-erudita parla di un
«Palazzo dì Fallari», cioè «Falaride», nella zona), della cui architettura pare
utilizzi alcuni elementi.
La
semplice ma solenne facciata, non terminata nella parte superiore, è racchiusa
fra due poderosi piloni e sormontata, da una cornice in forte risalto; il bel
portale ogivale ha battenti lignei rozzamente intagliati a rosette romboidali,
opera dì Angelo di Blundo (firmata e datata 1531).
L'interno
è a una sola navata, con quattro cappelle che si aprono sul lato E; intorno
corre un poderoso cornicione aggettante, che nella parete di fondo sormonta una
finta loggetta di cinque arcatelle pensili, dove é un ciclo di affreschi con
figure di santi del sec. XVI. La volta è ogivale, con costoloni trasversali.
Alla parete d. è un'acquasantiera in marmo sostenuta a sbalzo da una mano
intagliata, datata 1529; nella 2° cappella è sistemato il celebre, magnifico
sarcofago di Fedra, qui collocato provvisoriamente dal Museo Diocesano dopo la
frana del 1966. Nella 3° cappella, Crocifisso ligneo detto “Il Signore della
nave” (si ricordi l'omonimo dramma di Luigi Pirandello, che ne trasse
ispirazione); nella 4° cappella, Madonna, col Bambino, statua marmorea del sec.
XVI di scuola gaginesca. A sin. dell'altare, tela del 1593 raffigurante S.
Diego e storie della sua vita. In sagrestia, in fondo a destra, una
Deposizione, lunetta affrescata da Innocenzo Pascarella (firmata e datata
1575).
La chiesa
di S. Nicola è l'ultimo monumento sorto in una zona che è stata oggetto di
culto, senza interruzioni, fin dai tempi greci arcaici. Il poggio di S. Nicola
occupa una posizione centrale nella zona pianeggiante in cui sorgeva la città.
Definito ai suoi piedi da due decumani (a nord e a sud) e due cardini (a est e
a ovest), dei quali restano tracce, è sede di un santuario greco-romano, i cui
resti più consistenti si trovano nell'area antistante il moderno edificio del
Museo Archeologico: a una fase ellenistica del santuario (sec. IV o III a.C.) è
legata una cavea assembleare a forma di teatro, in cui è da riconoscere l'”ekklesiasterion”.La
costruzione geometrica, a semicerchio dalla curvatura prolungata sino a
ottenere (6/8 dell'intera circonferenza, ha un diametro massimo di m 48 circa,
e uno minimo di m 15.60. La cavea, che misura mq 1250, poteva contenere 3000
persone su diciannove gradini scavati in parte nella roccia.
Nell'area
fra l'ekklesiasterion e il bouleuterion sorge il Museo Archeologico
regionale, che incorpora parti dell'antico monastero di S. Nicola ,di
cui si conserva, sul muro orientale, una bella bifora medievale con ornati a
zig zag. Il Museo, uno dei maggiori musei archeologici della Sicilia, si
articola in due settori: uno, più ricco, riguarda Agrigento, l'altro i
territori delle province di Agrigento e Caltanissetta, con esclusione di
Caltanissetta stessa e di Gela, che sono sede di musei propri.
Nell'ingresso
è collocata una planimetria del percorso di visita, con l'indicazione del
contenuto di ciascuna sala: Sala 1: pannelli con testi classici
relativi ad Agrigento, e uno con la planimetria archeologica della città
antica; riproduzioni di stampe dall'opera su Agrigento del teatino G. Pancrazi,
sec. XVIII, Sala 2: materiale preistorico, del II e I millennio
a.C., caratteristico dell'ambiente in cui sorse poi la greca Akragas; materiale
di età greca arcaica, proveniente da Gela, Licata e Palma di Montechiaro, qui
esposto per indicare il cammino percorso tra il sec. VII e il VI a.C. dai Greci
di Gela per arrivare alla fondazione di Akragas nel 560 a.C.; reperti dalla
necropoli agrigentina di Montelusa (località San Leone), coeva alla fondazione.
Sala 3: contiene la raccolta vascolare, comprendente le vecchie
collezioni del Museo Civico e dei baroni Giudice, nonché alcuni vasi di più
recente rinvenimento (l'esposizione segue un percorso serpeggiante, in rigoroso
ordine cronologico, dai vasi attici a figure nere e a figure rosse del sec.
VI-V a quelli greco-italioti dei sec. V-III
a.C.). Da notare le anfore a figure nera con Athena su quadriga
(cerchia del Pittore di Edimburgo, fine sec. VI a.C.) e con Apollo, Artemide e
Latona (Pittore di Dikaios, 520, 500); i crateri a figure rosse con Deposizione
di guerriero (Pittore di Pezzino, ca. 500) e con palestriti e pedagogo (Pittore
di Harrow, ca. 400); i crateri a figure rosse, a due registri, con Corteo
dionisiaco (Pittore di Lugano, ca. 400) e con Sacrificio ad Apollo (gruppo di
Polignoto, 440-430); un cratere a fondo bianco, con Perseo e Andromeda (Pittore
delle plaiole, ca. 430); un magnifico grande piatto apulo (sec. IV). In fondo
alla sala, a sinistra, figura marmorea di Guerriero con scudo (sec. V a.C.). unico pezzo rimasto della grandiosa
decorazione scultorea del tempio di Giove Olimpico ricordato da Diodoro, Sala
4: scultura architettonica illustrata da interessanti esemplari di
gronde in pietra, a teste leonine, da vari templi. Sala 5:
dedicata ai santuari agrigentini di epoca, greca classica ed ellenistica: in
numerose vetrine delle gallerie S e N sono esposti gli ex voto in essi
rinvenuti. Da notare, statuette fittili delle divinità ctonie e di offerenti;
maschera di negretto; ricca collezione di matrici; bella testa di Athena con
l'elmo (sec. V a.C.); lucerne e «keruoi»; capolavori della plastica agrigentina
del sec. V-IV a.C., fra cui una superba testa di «kore» e alcuni busti modiati;
bordi di bracieri con decorazione figurata a stampo; rivestimenti
architettonici in ceramica dipinta; testa di «kouros» arcaico (sec. VI);
magnifica testa marmorea femminile (sec. V) e altra virile (sec. IV). Nel fondo
della sala, sulla parete ovest, grande diapositiva della Collina dei Templi, Si
scende alla Sala 6, il grande ambiente alto come due piani aperto
al centro della sala dei santuari e dedicato al tempio di Giove Olimpico: dalla
parete est domina, in posizione eretta, il colossale telamone superstite (alto
m 7.75); entro nicchie a N, tre teste di altri telamoni; in mezzo, plastico del
tempio. Allo stesso livello della sala del tempio di Giove, a sud, è la Sala
7, dedicata all'antico abitato: veduta aerea del
quartiere
ellenistico-romano: stratigrafia di un settore dello scavo; vetrine contenenti
svariati materiali in seriazione cronologica dal sec. VI a.C. al sec. VI d.C.,
tre « emblemata » musivi, fra cui quello assai noto con gazzella alla fonte
(sec. I d.C.); frammenti di decorazione parietale dipinta del 2° stile. A nord
si susseguono la Sala 8, dedicata all'epigrafia, e la Sala
9, col medagliere; la ricca collezione numismatica qui custodita (e a
cui si accede solo con uno speciale permesso), comprende monete greche, romane,
bizantine e arabo-normanne, in argento, bronzo e oro, da ripostigli o da scavi,
Risaliti al livello superiore si raggiunge dopo la galleria nord dedicata ai
santuari la Sala 10, della scultura greco-romana: statua marmorea
di Efebo, originale greco di forme severe appartenente all'arcaismo
maturo (ca. 470 a.C.); piccola graziosa Afrodite al bagno, mutila, e torso virile,
entrambi ellenistici; inoltre, paliotto o frammento di sepolcro o pluteo
paleocristiano con leoni che assaltano gazzelle; testine marmoree, busti. Segue
un lungo corridoio di transito e sosta, con bella veduta panoramica
all'esterno, dove sono due statue, romane di togati, fra il verde. Sala
11: materiale, prevalentemente vasi, ma anche oggetti di bronzo, dalle
necropoli agrigentine dei vari templi. Nella sala sono anche sei sarcofagi, fra
cui uno arcaico a vasca, in pietra tenera (sec. VI a.C.), uno di marmo greco
con motivi di triglifi (sec. V) e uno di età romana, detto della “lotta dei
galli”. Sale 12 e 13: dedicate alla preistoria del
territorio agrigentino, in un primo razionale tentativo di organizzazione
scientifica dei materiali rinvenuti in recenti scavi, dal Neolitico (IV-III
millennio a.C.) fino al momento della colonizzazione greca della Sicilia: le
principali località illustrate sono Sciacca, Palma di Montechiaro, Montallegro,
Milena, Monte Polizzello, Favara, Sant'Angelo Muxaro (da cui provengono la
patera e gli anelli sigillo d'oro dalla tomba VI). Sala 14:
sezione topografica della provincia di Agrigento (da sviluppare). Nell'ordine,
Eraclea Minoa, Ribera, Sambuca, eccetera. Sala 15: mostra
fotografica di antichità di Gela: a testimoniare l'eccezionale ricchezza
archeologica di questa zona, è esposto, in una vetrina al centro della sala, un
solo magnifico cratere a volute con rappresentazione a figure rosse di
Amazzonomachia (sec. V a.C). Sala 16:
pannelli vari e materiale da Ravanusa, Favara, Canicattì, Licata. Sala 17:
sezione topografica della provincia di Caltanissetta, attualmente limitata ai
materiali (vasi, terracotte, bronzi, ecc.) che si sono trovati in scavi nei
centri sicano-greci di Vassallaggi, presso San Cataldo, e di Raffe, nel
territorio di Milena.