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giovedì 29 gennaio 2015

Il MUSEO EBRAICO DI BERLINO
Dal 9 settembre 2001, data della sua apertura, il museo rappresenta la sintesi architettonica dell’identità culturale di un popolo, si pone anche come tangibile espressione della presenza e del ruolo degli ebrei in Germania, ma oltre tutto questo è un invito alla riconciliazione – fisica e spirituale – della città di Berlino con la Shoah.
Architecture is a language” è questo il concept che nutre l’architettura di Daniel Libeskind e che viene concretizzato attraverso una delle sue più importanti opere: il Jüdisches Museum.

Nato a pochi chilometri dalla capitale tedesca (a Lodz, in Polonia) e appartenente a una famiglia decimata dallo sterminio, Libeskind presentò il suo progetto al Senato di Berlino nel 1988, un anno prima della caduta del muro. Alla base della sua proposta era il desiderio di affrontare, in un’unica struttura, temi ampi e complessi come la storia degli ebrei tedeschi e il vuoto lasciato dalla loro assenza a Berlino, per arrivare infine a offrire un simbolo di speranza per un nuovo corso storico, per Berlino e per l’Europa.
Originariamente, il progetto nasce per ampliare il preesistente edificio storico del Museo di Berlino, inserendosi nel quartiere barocco, il Friedrichstadt sud, distrutto dalla guerra.
L’originaria idea di ampliamento e di integrazione al Museo preesistente viene stravolta da un progetto che riassume la storia degli ebrei in Germania.

L’architetto ha definito il suo progetto “between the lines” perché è proprio tra una serie di intersezioni di linee che dà vita a un corpo edilizio scultoreo, dal profilo drammaticamente spezzato, che, visto dall’alto, riprende la forma geometrica di una saetta; da qui il soprannome blitz, che in tedesco significa fulmine.
Un taglio, una ferita che scolpisce, graffia il disegno urbano della città; un segno forte percepibile dall’osservatore esclusivamente attraverso una vista aerea, che si materializza anche tramite il rivestimento esterno in zinco, anch’esso “squarciato” da aperture oblique di diverse dimensioni.
La luce filtra attraverso fessure asimmetriche che sembrano pugnalate nell’altrimenti liscia facciata del monolitico edificio. In realtà le finestre-fessure seguono uno schema preciso: ricalcano la posizione – identificata su una mappa della Berlino pre-bellica – delle case dove abitavano eminenti cittadini ebrei e tedeschi. Il museo è un volume che si chiude in se stesso, privo di qualsiasi contatto con la città; non ha un accesso diretto dall’esterno e per poter accedere bisogna passare dal vecchio edificio.

L'entrata al museo è stata intenzionalmente resa difficile e lunga, per far rivivere al visitatore il difficile cammino della storia ebraica.
 

L’ingresso è costituito da uno squarcio su una parete bianca e conduce a degli spazi caratterizzati da un gioco di muri bianchi, neri, spigolosi, inclinati che, grazie anche alla luce fredda emessa dai neon, accentuano la sensazione di tensione, di angoscia e di dolore.

Una rampa di scale che collega i due edifici conduce a un sotterraneo scomposto in tre assi, una sorta di tridente, che simboleggia i diversi destini del popolo ebraico: l’asse dell’Olocausto confluisce a una torre denominata la Torre dell'Olocausto; l’asse dell’Esilio conduce a un giardino quadrato esterno, denominato Giardino dell’Esilio; l’asse della continuità, collegato agli altri due corridoi, rappresenta il permanere degli ebrei in Germania nonostante l’Olocausto e l’Esilio.

Il percorso che conduce alla torre dell'Olocausto, parte da un muro nero. Il nero diventa il simbolo della tragica assenza di razionalità e amore, il simbolo del “sonno della ragione”.
Al termine della strada ci si trova di fronte a un portone imponente, ad li là del quale si apre la torre: una struttura completamente vuota, buia, circondata da alte pareti in cemento. Non c’è nessuna finestra da cui guardare, ma soltanto una stretta feritoia posta in alto, dalla quale riesce a filtrare la luce diurna.

È impossibile vedere fuori e capire dove si è, così come accadeva agli Ebrei nei campi di concentramento. L’aria entra attraverso piccoli fori praticati su una parete, che richiamano quelli attraverso cui veniva immesso il gas nelle camere di morte.
Simbolica diventa anche una scala metallica a circa due metri e mezzo dal pavimento; mezzo di salvezza e di speranza che ha nutrito gli animi degli ebrei, ma qui è irraggiungibile, così come la salvezza di molti di essi.

Durante il percorso a un tratto la materia si “smaterializza”, il pieno viene svuotato per condurre il visitatore a meditare; sono pause di raccoglimento e silenzio.
Il vuoto, tema dominante del museo, assume un grande significato: l’impossibilità di colmare secoli di sofferenze e di dolore. Ma a tratti questo silenzio viene interrotto dal suono freddo del metallo: sono i visitatori che addentrandosi nel grande vuoto calpestano una fitta e assordante distesa di piccole facce di ferro dalla bocca sbarrata in un urlo.
Shalechet, ovvero le foglie morte, dell'artista israeliano Menashe Kadishman; un'opera iniziata nel 1997 - e dichiaratamente tuttora incompiuta. La moltitudine di faccine di ferro semi-arrugginito, tonde e piatte, sofferenti, vengono inevitabilmente calpestate dal visitatore, rievocando così inevitabilmente il ricordo delle vittime della Shoah.

Proseguendo si incontra il secondo asse che conduce al Giardino dell’Esilio; attraverso una porta vetrata si entra in contatto apparente con l’esterno. Un alto muro di cemento avvolge la superficie quadrata del giardino in modo tale che dall’esterno non si possa vedere nulla.

Dentro il giardino, quarantanove pilastri in cemento armato svettano in cielo, recando in sommità degli alberi, definendo una sorta di labirinto che reca anch’esso la sensazione di disagio. Il numero dei pilastri serve a ricordare la data di nascita dello Stato di Israele (1948) e la colonna in più, centrale, rappresenta la città di Berlino. Gli alberi, gli olivagni, simbolo di pace, collocati in contenitori stretti (che ne rendono difficile la crescita) rappresentano invece la forza e il coraggio degli ebrei esiliati.
L’uso di un piano di calpestio inclinato di sei gradi è stata una tecnica voluta da Libeskind affinché il visitatore provasse la stessa sensazione di straniamento e disagio che hanno provato gli ebrei: camminando tra i pilastri si prova, infatti, una straniante mancanza di equilibrio. Infine, la terza strada è rappresentata da una lunga scala che, col suo moto ascensionale, accompagna il visitatore alle sale espositive disposte su tre piani. Questo è un percorso illuminato attraverso lucernari e finestre laterali.

La sua linearità simboleggia la continuità della storia e la consapevolezza del fatto che la vita va avanti, che esiste una speranza di salvezza. Ma, percorrendo la scala, lo sguardo viene drammaticamente “attaccato” da intrecci di travi strutturali inclinate che, come schegge, penetrano nei muri che camminano parallelamente alla scala rendendo lo spazio, ancora una volta, teso ed emozionante. Loro funzione è inoltre quella di ricordare l’imprevedibilità della storia.

Il Museo Ebraico di Berlino testimonia dunque la forza espressiva di un’architettura capace di essere “compresa” senza bisogno di intermediazioni.

E' possibile vedere interessanti  video sul museo a questi indirizzi

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