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lunedì 16 dicembre 2013

Dall'Albergo delle Povere alla Necropoli punica passando per il Palazzo della Cuba.

A poca distanza da Piazza Indipendenza procedendo su Corso Calatafimi in direzione di Monreale è facile notare sulle destra un edificio molto esteso sul fronte stradale: l'Albergo delle Povere, così come oggi viene chiamato.
L'Albergo dei Poveri fu fondato con il nome di Reale Albergo dei Poveri nel 1733, durante il vicereame austriaco, con lo scopo di accogliere poveri inabili, storpi, giovani vagabonde ed orfane e ospitato originariamente nei locali del cosidetto “Serraglio” nell'ex Convento degli Agostiniani (sito in via Rocco Pirri nei pressi della Stazione C.le). Uno dei fondatori fu Ferdinando Francesco Gravina, principe di Palagonia, il cui busto è possibile vedere oggi all'interno del cortile centrale dell'edificio di C.so Calatafimi.
Cortile e chiesa di S.Maria della Purificazione
Il progetto per un nuovo edificio fu intrapreso durante il regno di Carlo III di Borbone. Inizialmente affidato all'architetto Orazio Furetto, il cantiere fu poi seguito fino al termine dei lavori dagli architetti Giuseppe Venanzio Marvuglia e Nicolò di Puglia. I lavori di costruzione presero avvio nel 1746 e durante la costruzione furono rinvenuti dei sepolcri fenicio-punici; i lavori durarono più di 25 anni, tanto che la struttura fu inaugurata solo l'8 agosto del 1772, ai tempi di Ferdinando III, e solo allora vi furono trasferiti gli ospiti della sede del “Serraglio” che da allora fu denominato “Serraglio vecchio” per distinguerlo dai nuovi locali.
Nel primo cortile prospetta una chiesa a pianta rettangolare, dedicata a S. Maria della Purificazione, costruita tra il 1773 e il 1799.
Dal 1898 l'edificio fu riservato soltanto alle donne tanto che il suo nome fu cambiato in Albergo delle Povere.
Oggi appartiene parte alla Regione Siciliana e parte alla facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli studi di Palermo; inoltre è sede di mostre temporanee e convegni. Recentemente ha ospitato una interessante mostra sugli Etruschi e la Collezione Casuccini, solitamente esposta al Museo A. Salinas, attualmente chiuso per restauri.
Attraversando corso Calatafimi al n°100, oltrepassato un arco, è possibile ammirare il Palazzo della Cuba.
Il Palazzo della Cuba
Questo, voluto da Guglielmo II, un tempo circondato da acque azzurre e dal verde dei giardini fu costruito nel 1180, come dice la fascia epigrafica in caratteri nashi che fa da cimasa all'edificio (un calco dall'originale con relativa traduzione del testo è visibile, insieme ad alcuni conci ritrovati recentemente, nel piccolo e interessante museo che si trova a fianco del palazzo).
Doveva essere noto in tutta Italia tanto che Boccaccio vi ambientò la sesta novella della quinta giornata del Decamerone.
L'ingresso originario dell'edificio era quello orientato verso Monreale, collegato alla terraferma tramite una passerella. L'ingresso odierno serviva invece come accesso dopo l'attracco delle imbarcazioni provenienti dalla peschiera. Dall'ingresso originario ci si immetteva in una sala
Pianta del Palazzo della Cuba
coperta utilizzata dal re per riposare.
La parte centrale dell'edificio era caratterizzata da un grande atrio forse scoperto, o coperto da una cupola, circondato da un quadriportico formato da quattro arcate ogivali sorrette da quattro colonne ai quattro angoli e coperto da volte a botte. Al centro si trovava un impluvium stellare. L'ultima sala, aperta verso la città e il mare collegava la sala centrale e la peschiera; era un vano cubico, coperto da una volta a crociera, con tre nicchie sui tre lati. Il paramento murario, rimaneggiato nei restauri del 1918-25 e 1936 (F. Valenti) è animato da alte arcate cieche a doppia ghiera che contengono monofore, bifore o nicchiette sormontate da conchiglie. Attorno all'edificio fu impiantato un campo sanitario durante la peste del 1575 e presto cadde in rovina. Nel 1860 divenne proprietà dello stato italiano e pertinenza della caserma L. Tukory. Proprio all'interno del vecchio recinto della caserma è possibile visitare la Necropoli punica.
Necropoli punica, tombe a fossa
Durante l'epoca punica, la necropoli era ubicata fuori le mura cittadine, su un'area a monte che era la naturale continuazione del tratto di terra generato dai due fiumi Kemonia e Papireto.
Dal 1746, anno delle prime scoperte avvenute in occasione della costruzione del Albergo dei poveri, sono state rinvenute oltre settecento tombe.
Tra febbraio e giugno del 2004 si è completato lo scavo di una porzione della necropoli: sono state scavate in tutto circa 150 sepolture, risalenti dal VII al III secolo a.C. distribuite soprattutto sotto la caserma Tukory.
A questa indagine sistematica si sono affiancate alcune scoperte casuali con scavi d'emergenza. Una tomba a camera ipogeica è stata scoperta, in occasione della messa in opera della nuova rete idrica, all'angolo tra la via Maggiore Amari ed il corso Calatafimi, consentendo di recuperare uno dei corredi più antichi dell'intera necropoli, caratterizzato dalla presenza di forme tipiche del repertorio fenicio.
Necropoli punica, Tombe a camera
Altre due tombe a camera ipogeica sono state rinvenute nel corso dei lavori di restauro del complesso monumentale dell'Albergo dei poveri di corso Calatafimi.
In base al numero consistente delle sepolture alcuni studiosi hanno pensato di poter dare conferma alle parole di Polibio (I, 38) che definì Palermo «la città più importante dell'eparchia cartaginese».
I tipi di sepoltura erano diversi: potevano essere delle semplici fosse o pozzetti per urne cinerarie, scavati nella terra o sarcofagi scavati nella calcarenite e ricoperti da tegole in terracotta o da una lastra sempre in calcarenite. A volte si avevano delle tombe a camera: una scaletta scavata nella roccia permetteva di accedere ad un piccolo ambiente sotterraneo che ospitava il sarcofago (in cui venivano posti gli oggetti personali del defunto), solitamente coperto da lastre di terracotta o di pietra, sopra le quali veniva deposto il corredo.
Le sepolture sono prevalentemente a inumazione, ma ve ne sono anche ad incinerazione.
All'interno delle sepolture sono state trovati ricchi corredi composti da vasellame, di produzione locale o d'importazione greca ed etrusca, monili d'argento e di bronzo, amuleti, armi e grossi orci destinati a contenere viveri e bevande.


Bibliografia:
A.Chirco-Palermo la città ritrovata itinerari fuori le mura- Dario Flaccovio Editore- Palermo 2006
F. Spatafora- da Panormos a Balarm Nuove ricerche di archeologia urbana- Eurografica Palermo 2005

martedì 3 dicembre 2013

Le "Catacombe dei Cappuccini" di Palermo

A Palermo tra i complessi catacombali veri e propri vanno annoverate la Catacomba paleocristiana di Porta d'Ossuna, dal nome del viceré Pietro Giron duca d'Ossuna, e quella non meno importante, anche per l'anomala tipologia, di S. Michele che si sviluppa, presso il complesso gesuitico di Casa Professa, al di sotto della Chiesa medievale di S. Maria della Grotta.
A questi vanno altresì aggiunti altri complessi ipogeici minori, attualmente non accessibili. Sono vere e proprie opere architettoniche “costruite” scavando opportunamente il banco di calcarenite giallastra su cui si sviluppa la città di Palermo e non grotte o cunicoli atte ad evocare, più o meno romanticamente, la nostra fantasia. Non vanno confuse quindi con il cimitero ipogeico dei Cappuccini, che come “catacomba” viene inopportunamente presentato ancora oggi a turisti e visitatori della nostra città.
Volendo quindi descrivere le cosidette  "Catacombe dei Cappuccini" bisogna innanzitutto dire che queste sorsero come semplice luogo di sepoltura di un gruppo di religiosi e il loro attuale sviluppo ed aspetto lo si deve, per certi versi, al caso. L'Ordine dei frati minori cappuccini, fondato nel 1520 è uno dei tre ordini mendicanti che costituiscono i Francescani. Giunti a Palermo nel 1534, i Cappuccini, come era consuetudine, costruirono fuori le mura la loro chiesa dietro la quale inizialmente seppellirono i loro morti in una fossa comune presso il lato meridionale della chiesa.
Intorno al 1599 i frati trasferirono le salme di 40 frati precedentemente sepolti nella fossa comune, dimostratasi insufficiente, in una cavità naturale presente al di sotto dell’altare maggiore della chiesa. Ben presto, si rese necessario ampliare anche questa, perchè ormai satura, realizzando la prima parte del corridoio dei frati. Le salme furono poste tutte attorno alle pareti, collocando al centro in una nicchia l’immagine della Madonna, oggi non più esistente. Ripresi i lavori di ampliamento nel 1601, fu scavata una seconda stanza, la seconda parte del corridoio dei frati, a cui si arrivava per mezzo di una scala con accesso dalla sagrestia. Dal 1601 al 1678 si continuò a scavare unificando il corridoio dei frati e realizzando buona parte di quello degli uomini; i lavori continuarono fino al 1732 con la realizzazione del corridoio dei professionisti e di parte di quello delle donne, raggiungendo l’attuale dimensione: quattro corridoi formanti un impianto di forma rettangolare diviso da un quinto corridoio, quello dei sacerdoti. La sistemazione definitiva fu opera del frate architetto Felice La Licata da Palermo nel 1823. Dopo di allora si effettuarono soltanto opere di manutenzione ordinaria o straordinaria, come quelle successive ai bombardamenti dell'11 marzo del 1943 che distrussero l'altare del Crocifisso, posto in fondo al corridoio dei professionisti.
La fama delle “catacombe” è soprattutto legata al fatto che dal Seicento fino al 1881 furono scelte come luogo di eterno riposo dai cittadini più in vista di Palermo. Lungo i corridoi riservati a uomini, donne, professionisti ed ecclesiastici, si contano circa 8000 corpi scheletriti, mummificati, alcuni imbalsamati altri deposti in urne e bare. La visione può risultare sconcertante e inquietante e forse proprio per questo ha destato la curiosità di diversi visitatori fra cui il poeta Ippolito Pindemonte, che visitò le catacombe nel giorno dei morti nel 1779 e le decantò nei versi “I Sepolcri”, (vv. 126-136):
 
«..:spaziose, oscure
stanze sotterra, ove in lor nicchie, come
simulacri diritti, intorno vanno
corpi d'anima voti, e con que' panni
tuttora, in cui l'aura spirar fur visti;
sovra i muscoli morti e su la pelle
così l'arte sudò, così caccionne
fuori ogni umor, che le sembianze antiche,
non che le carni lor, serbano i volti
dopo cent'anni e più: Morte li guarda,
e in tema par d'aver fallito i colpi».


La città di Palermo, grata e riconoscente all’illustre poeta, chiamò la strada che porta alla Chiesa e quindi al cimitero "Via Pindemonte". Sembra che Giacomo Leopardi abbia tenuto presente questo passo dei Sepolcri del Pindemonte nel suo Paralipomeni della Batracomiomachia, (un ampio poemetto satirico in ottave scritto a partire dal 1831 durante il suo soggiorno napoletano) al canto VIII , stanza 16:

Son laggiù nel profondo immense file
di seggi ove non può lima o scarpello,
seggono i morti in ciaschedun sedile
con le mani appoggiate a un bastoncello,
confusi insiem l'ignobile e il gentile
come di mano in man gli ebbe l'avello.
Poi ch'una fila è piena, immantinente
da più novi occupata è la seguente.
Colatoio, Catacombe dei Cappuccini

Oltre al Pindemonte le “Catacombe” destarono la curiosità del celebre scrittore francese Guj de Maupassant che, avendole visitate nell’anno 1885, si soffermò lungamente sul metodo dell’essiccamento. In effetti la mummificazione era un’opera di perfezionamento di uno stato di straordinaria conservazione che l’ambiente sotterraneo costituito da rocce calcarenitiche, con la sua temperatura e umidità costante garantiva, consentendo l’essiccazione dei corpi anziché la loro completa decomposizione. Il procedimento di mummificazione (naturale) appresso descritto, era praticato a Palermo da e per i religiosi in altre
Colatoio, Chiesa di S.Orsola dei Neri
cripte di chiese, cappelle ed oratori quali quella di S.Orsola dei Neri, dei Cocchieri, delle Ree Pentite, del Carminello etc. e fuori Palermo ad esempio a S.Stefano di Quisquina o a Burgio. Dopo la cerimonia funebre, le salme venivano poste all'interno dei colatoi (stanze il cui perimetro era delimitato da lettucci composti da doccioni di terracotta o “catusi”su cui venivano distese le salme) dove rimanevano per un periodo da otto mesi ad un anno; il tempo necessario perché si decomponessero in maniera naturale, liberando i liquami e pervenendo ad un primo stadio di essiccamento. Dai colatoi i cadaveri venivano trasportati in un recinto chiuso e ventilato dove venivano lavati e ripuliti con aceto, quindi esposti all’aria per diversi giorni. In alcuni casi, specie durante le epidemie, i corpi venivano trattati con un bagno in arsenico o in latte di calce. Sembra che il bagno in latte di calce divenne poi consueto in aggiunta al metodo di essiccamento in colatoio. La salma, dopo il trattamento, si riduceva allo stato di scheletro, non di rado rivestito anche da uno strato dell’epidermide originale, ben conservato e più resistente. Veniva rivestito, utilizzando a volte della paglia per riconfigurare il volume del corpo, e inchiodato a un asse di legno
La piccola Rosalia Lombardo
per consentirne la collocazione e il posizionamento. Questa pratica continuò fino al 1885, anno in cui i frati cominciarono a rispettare il divieto delle essicazioni sancito nel 1881, con una eccezione. Nel 1920 fu riposta e imbalsamata la salma delle piccola Rosalia Lombardo, morta il 6 dicembre di quell’anno, mummificata secondo i canoni tradizionali ma imbalsamata dal Dottor Alfredo Salafia. Questi
(Palermo, 7 novembre 1869 – Palermo, 31 gennaio 1933), aveva messo a punto un metodo di conservazione della materia organica basato sull'iniezione di sostanze chimiche. Dopo aver applicato a lungo il proprio sistema per esperimenti tassidermici, nel 1900 ottenne il permesso di sperimentare il composto su cadaveri umani. La perfetta conservazione dei corpi suscitò presto ammirazione ed interesse, così venne convocato per restaurare il corpo di Francesco Crispi, imbalsamato a Napoli, ma giunto a Palermo in condizioni di conservazione precarie.
Grazie alla minuziosa opera di restauro fu chiamato per la preparazione di personaggi preminenti, in modo tale che le loro salme potessero essere esposte per un lasso di tempo prolungato. Tra essi si ricordano il Cardinal Michelangelo Celesia, Il Senatore Giacomo Armò, l’Editore Salvatore Biondo, e l’etnografo Giuseppe Pitrè. Il Dottor Salafia non svelò mai il procedimento chimico utilizzato. Nel caso di Rosalia Lombardo i risultati sono ancor oggi visibili : la piccola, grazie alla pienezza dei tratti del viso, sembra solo addormentata.


Bibliografia:

Flaviano D. Farella - Cenni storici della chiesa e delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo
Ed. “Fiamma Serafica” 1982 Palermo.
Dario Piombino Mascali - Il Maestro del Sonno Eterno. Presentazione di Arthur C. Aufderheide. Prefazione di Albert R. Zink. Ed. La Zisa, 2009 Palermo.

sabato 30 marzo 2013

Lo sviluppo urbanistico della città di Palermo.

(Dalla città entro le mura al sacco di Palermo)

 

I primi tentativi di espansione urbana oltre le mura

Dopo una prima timida fase di sviluppo oltre le mura cinquecentesche in direzione di Monreale lungo il Cassaro, si optò per il prolungamento della via Maqueda. I territori a sud erano però poco adatti all'urbanizzazione, vista la presenza del fiume Oreto che rendeva malsana la zona. Così, dopo aver costruito il quartiere Oreto subito oltre le mura, si tentò di incrementare l'espansione verso il fiume costruendo anche due grandi zone di verde, l'Orto botanico e la Villa Giulia, ma ciò non ottenne i risultati sperati: la zona a sud era infatti quella più densamente coltivata e quindi meno appetibile economicamente. A questo punto la direttrice di espansione si orientò a nord, verso la Piana dei colli, una zona pianeggiante, fertile e arieggiata.

L'inizio della pianificazione


Pianta di Palermo del 1777 (dal Villabianca)
La decisione di spostare il baricentro cittadino verso nord avviene definitivamente nel 1778 quando il pretore, il marchese Regalmici, affida all'ingegnere Nicolò Palma il compito di creare una nuova zona che mettesse in collegamento la città antica col Borgo di Santa Lucia secondo un ordine geometrico e razionale. La cosiddetta addizione Regalmici ripropone così l'ordine ortogonale dei Quattro canti ricreandolo all'esterno della città. L'incrocio fra il prolungamento della via Maqueda (ora via Ruggero Settimo) e una nuova via a essa perpendicolare, lo stradone dei Ventimiglia, oggi via Mariano Stabile, che giungeva sino al mare, crea un'altra piazza ottagonale, chiamata Quattro canti di campagna in contrapposizione a quella cittadina. Ancora più a nord, la strada del Mulino a vento (oggi corso Scinà) costituisce un collegamento diretto fra la città e il Borgo di Santa Lucia. Nei primi decenni del XIX secolo la popolazione comincia sempre più a spostarsi all'esterno delle mura, tanto che l'amministrazione comunale nel 1819 istituisce i due nuovi quartieri Oreto e Molo e iniziano i lavori di miglioramento dei tracciati viari di collegamento. A conferma della corretta intuizione dell'amministrazione Regalmici, nel 1848 viene tracciata verso nord la via della Libertà, chiamata dai Borboni Strada della Real Favorita, completata nel 1861 con la piazza Alberigo Gentili.

I progetti del 1860


In seguito agli attacchi al sistema bastionato da parte dei borboni e visto lo stato di degrado di molte abitazioni del centro, il pretore Duca di Verdura promosse un concorso per la presentazione di un progetto di pianificazione della città. Nel settembre 1860 un gruppo di architetti e ingegneri composto fra gli altri da G.B.F. Basile, presentò due progetti, uno "Economico", uno "Grandioso" ed alcuni elementi di quello "Medio" tutto questo poiché non si conosceva il bilancio a disposizione del comune. Il primo, "Economico", prevedeva soprattutto miglioramenti alla maglia viaria del centro e la creazione di nuove strade nella zona nord, la lottizzazione dei terreni presso la via Libertà e l'edificazione di bagni pubblici e di due teatri. Quello "Grandioso" si concentrava soprattutto sulla viabilità interna prevedendo un reticolato composto da altri quattro assi perpendicolari fra loro che intersecando le vie Maqueda e Cassaro dividevano la città in sedici quadranti rettangolari. Alla fine nessuno di questi progetti venne realizzato, ma le proposte da questi lanciate influenzeranno molto la successiva pianificazione cittadina. Nel 1866 l'Uffico tecnico comunale redige il "Piano generale di bonifica e ampliamento" che riprende alcuni elementi del progetto "Grandioso", ma favorendo uno sviluppo disomogeneo proponendo la lottizzazione e i piani ad opera di privati. È anche grazie alla grande crescita demografica che nella zona Ovest della città vengono identificati due nuovi mandamenti in prossimità delle antiche residenze normanne: Cuba e Zisa. La città viene anche dotata di importanti infrastrutture come il prolungamento del Molo Nord per difendersi dalle frequenti inondazioni e la prima circonvallazione ferroviara che congiunge la zona portuale con la stazione centrale.

Il Piano Giarrusso e il taglio di via Roma


Il Piano Giarrusso (in rosso le nuove edificazioni previste)
La situazione igienico-sanitaria all'interno del centro peggiorava sempre di più. La maggior parte della popolazione infatti abitava i cosiddetti "catoi"; abitazioni costituite da un vano a piano terra spesso ricovero di animali e/o adibito a cucina e gabinetto comune, e uno o più ambienti disposti a volte su piani sovrapposti e destinati a camere da letto. In queste condizioni erano molto frequenti le epidemie tanto che l'amministrazione decise di intervenire proponendo un piano di bonifica.
Nel 1885 venne approvato il "Piano regolatore di risanamento" dell'ing. Felice Giarrusso (noto appunto come Piano Giarrusso) che sostituì quello dell'ing. Luigi Castiglia che venne bocciato. Questo piano, rifacendosi al progetto "Grandioso", prevedeva l'apertura di quattro strade perpendicolari agli assi preesistenti che creassero degli incroci ortogonali al centro di ogni mandamento. Queste strade, dalla larghezza prevista intorno ai 20 metri, avrebbero avuto il compito di aprire la stretta e disordinata maglia viaria antica permettendo il passaggio dell'aria e della luce rendendo più salubri le varie zone. Palermo si sarebbe allineata alla moderna tendenza agli sventramenti già verificatasi nella Parigi di Napoleone III e del Barone Hausmann, di Napoli (Spaccanapoli) e di Firenze, ma anche di Barcelona e del Piano Cerda. Per alloggiare la popolazione dalle zone interessate dai lavori si vennero a creare nuovi quartieri posti soprattutto in riva al mare, come nei pressi delle borgate di Romagnolo nella zona sud e dell'Acquasanta alle falde del monte Pellegrino. Delle quattro grandi strade previste vennero realizzate soltanto l'attuale via Mongitore, che taglia parallelamente al Cassaro il quartiere dell'Albergheria, e la via Roma. che attraversa due mandamenti (Tribunali e Castellamare) correndo pressoché parallela alla via Maqueda. I lavori, iniziati nel 1895 all’incrocio con via Cavour, vennero ultimati nel 1922 e causarono la demolizione di molte abitazioni e di edifici e chiese di interesse storico. Poiché i finanziamenti terminavano periodicamente, i lavori ebbero un iter lungo e travagliato e non si svolsero con continuità. La strada venne realizzata a zone con un tracciato spezzato e non esattamente parallelo alla via Maqueda (anche per gli interessi di ricche famiglie che sul tracciato previsto avevano la residenza). Si innescò una speculazione edilizia che interessò soltanto i lotti e gli edifici prospicienti la strada lasciando quelli non in vista degradati e malsani (ad es. nella zona del mercato della Vucciria). La via Roma divenne comunque un importante asse cittadino che metteva in collegamento la Stazione centrale con la zona portuale del Borgo Vecchio. Per questo motivo sulla via si edificarono il Teatro Biondo e in epoca fascista il palazzo delle Poste Centrali, senza dimenticare tutti i palazzi in stile umbertino che con la loro altezza rendevano vano lo sperato effetto di "risanamento" poiché eclissando i bassi edifici alle loro spalle impedivano il passaggio di luce e aria verso l'interno. Così la via Roma, finanziata col denaro previsto per le cosiddette opere di risanamento, divenne più che altro una strada celebrativa e a conferma di ciò all'inizio della stessa in piazza Giulio Cesare venne posto un ingresso monumentale.

L'Esposizione Nazionale e la crisi degli anni Venti


Nel 1891 si era svolto un evento che anche se non lasciò prove tangibili del suo passaggio avrebbe influenzato decisamente la storia urbanistica della città: l' Esposizione Nazionale. Grazie all'iniziativa delle importanti e ricche famiglie palermitane, tra cui senz'altro i Florio e i Whitaker, la città si mise in "vetrina" ospitando un evento che ebbe riscontri positivi anche dal punto di vista commerciale e turistico. I padiglioni dell' Esposizione vennero costruiti nella zona a monte di via Libertà fra le attuali piazze Politeama e Croci, nella zona nota come "firriatu di Villafranca" di proprietà del principe di Radaly. Nel giro di qualche anno tutti i padiglioni vennero smontati ma la risonanza della manifestazione ebbe importanti strascichi sulla storia cittadina.
Planimetria generale e prospettiva dell'Esposizione Nazionale
La zona scelta per l’esposizione confermava la volontà cittadina di spostare l'attenzione sull'area a nord del centro. Il completamento della via Libertà nel 1911 segnerà appunto fermamente questa decisione trasformando questa zona nel nuovo centro direzionale della città dedicato alle classi più abbienti e dinamiche. La disposizione a scacchiera che si rifaceva all'impianto ortogonale parigino influenzerà la successiva edificazione della zona che al termine della manifestazione verrà lottizzata ed occupata da ricche abitazioni poste su più piani. Lo stile liberty d'altro canto troverà un fecondo terreno nella nascita dei numerosi villini che le ricche famiglie edificheranno lungo le vie Libertà e Dante (Villino Ida, Villa Deliella, Villino Florio all’Olivuzza, Villa Favaloro) e nelle vicine vie come l'attuale via Notarbartolo (Per foto e notizie sul Liberty a Palermo vedi anche http://www.arteliberty.it/palermo.html).  Anche se ormai molte tra queste sono state demolite per far posto ad alti condomini, lo stile liberty è ancora ben visibile nelle ville edificate nello stesso periodo soprattutto nei pressi di Mondello che, in seguito alla bonifica degli acquitrini di Valdesi, diventerà in breve tempo la spiaggia preferita dai palermitani (E' possibile vedere qualche immagine significativa cliccando sul link http://laguilla.wordpress.com/ville-non-piu-esitenti-di-via-liberta/). I primi decenni del novecento segnano invece una profonda crisi economica che si ripercuoterà anche in ambito cittadino. Vista la proroga del piano Giarrusso fino al 1941 i proprietari degli edifici del centro, spaventati da eventuali espropri, non effettueranno nessun lavoro di mantenimento sulle abitazioni che così sprofondano sempre più in uno stato di abbandono e degrado mentre l'edificazione senza controllo segna la nascita di nuovi quartieri, come quello dell'Olivuzza. Nonostante tutto nel 1922 iniziano i lavori per l'ampliamento del porto e vengono costruiti il quartiere Matteotti, iniziato nel 1927, e il nuovo ospedale Civico progettato nel 1932.

Il Concorso del 1939



Nel 1939, vista la necessità di dotare la città di uno strumento che desse ordine all'edificazione di una città in perenne crescita, venne indetto un concorso nazionale per la redazione di un Piano regolatore e di ampliamento previsto per una città di oltre 700.000 abitanti. Nel 1941 furono tre i progetti vincitori ex aequo.
Planimetria di Palermo ca. 1940
Nel 1944 fu redatto dall'Ufficio tecnico comunale, in collaborazione con i vincitori del concorso un Piano Regolatore, ma questo piano rimase solo sulla carta anche a causa degli eventi bellici. Durante la seconda guerra mondiale infatti, la Sicilia costituì il fronte d’attacco delle truppe alleate che erano attestate dall’altra parte del Mediterraneo, sulle sponde di Algeria e Tunisia. I danni causati dal conflitto specie ad opera dei bombardamenti anglo-americani precedenti l’8 settembre del ’43 furono ingenti, la città più colpita fu Palermo; in particolare il centro storico e la zona portuale, densamente abitati. Nel 1945 Palermo venne inserita fra le città che dovevano adottare un piano di ricostruzione. Tra il 1947 e il 1955 ben 35.000 contadini arrivarono alle porte di Palermo mentre furono ben 40.000 i palermitani che avevano avuto la casa distrutta e che richiedevano nuove abitazioni. La decisione politica non fu quella del restauro, ma quella della costruzione di una “nuova Palermo”. Fra i primi interventi vi fu la nascita di nuovi quartieri di edilizia sovvenzionata come il Villaggio S. Rosalia mentre di riflesso prese sempre più piede il fenomeno della speculazione edilizia, premessa del cosiddetto sacco di Palermo.

Dal Piano regolatore del 1962 al sacco di Palermo


Il PRG del 1962 arriva dopo quasi ottanta anni dal precedente Piano Giarrusso e viene approvato dal Presidente della Regione come Piano Regolatore Generale della città. Questo piano prevedeva l'ampliamento della superficie cittadina di circa il doppio, prevedendo un raddoppio della popolazione dai 500.000 a circa 900.000 abitanti. Conseguenze furono l’occupazione di moltissimi spazi prima destinati all'agricoltura e contemporaneamente l’inglobamento delle borgate storiche, molte delle quali perderanno la loro identità, nel tessuto urbano,. Il piano prevedeva la riduzione delle aree verdi e la sostituzione di piccoli edifici con edifici multipani, con l'intenzione, presunta, di limitare lo spazio occupato. In realtà si trattava di una semplice speculazione edilizia che causò l’abbattimento di molte ville ottocentesche e del primo novecento. In particolare la via Notarbartolo in pochi anni si trasformò da una strada circondata da ville e verde in una fiancheggiata da edifici di oltre 10 piani. Vista la grande esplosione demografica degli anni Sessanta e la pressante richiesta di abitazioni da parte della popolazione, nel 1966 vengono approvati i piani per l'edilizia convenzionata che utilizzando terreni precedentemente di uso agricolo creano 14 nuove zone edificate, alcune delle quali trasformano antiche borgate come Bandita, Arenella o Resuttana. Per le classi meno abbienti, la città, si dota dei Piani di Edilizia Economica Popolare (PEEP), e decide di edificare una serie di quartieri popolari. I PEEP vengono così dislocati, nella maggior parte dei casi, nei pressi della nuova circonvallazione cittadina, il viale Regione Siciliana.
La ex Conca d'oro da Monte Pellegrino
Questa, progettata inizialmente come tangenziale extraurbana di collegamento per il traffico diretto a Trapani o Messina e quindi come una sorta di limite all'espansione cittadina verso le montagne, venne in breve tempo assorbita dal tessuto urbano diventando un importante asse urbano che però taglia fuori e isola i nuovi quartieri sorti al di fuori di essa, come Borgo Nuovo o Passo di Rigano. Il via alla speculazione urbana sarà dato dalla costruzione di questi quartieri così distanti dalla città consolidata. Creando questi nuovi poli satelliti da collegare alla città tramite nuove opere di urbanizzazione primaria (strade, reti fognarie e idriche), il terreno inizialmente agricolo posto fra queste nuove aree e la città veniva acquistato a basso prezzo diventando subito dopo edificabile aumentando così a dismisura il suo valore. Sono questi gli anni in cui l'emergente mafia corleonese di Liggio, Riina e Provengano influenza fortemente l'amministrazione cittadina. Ne sono un chiaro esempio le relazioni tra il Sindaco di allora Salvo Lima ( dal '58 al '63 e dal '65 al '66) e l'assessore ai lavori pubblici Vito Ciancimino (dal '59 al '64), entrambi democristiani, sotto la cui amministrazione venne approvato il Piano regolatore del 1962, un affare colossale per la mafia. La mafia, che fino a quel momento sfruttava gli agricoltori, si trasformò in mafia urbana. Con la disgregazione dei grandi patrimoni terrieri e la lotta dei contadini per la terra, la mafia urbana divenne sempre più potente e si trasformò in associazione criminale organizzata dedita, fra l'altro, al commercio della droga. L'enorme quantità di denaro sporco realizzato con questi commerci, doveva essere investito in qualche modo anche perché era necessario “ripulirlo” e l'edilizia costituì quindi il canale migliore per portare a compimento la distruzione della Conca d'oro.